Il paesaggio agro-pastorale delle montagne dell’Appennino Centrale è il risultato di secoli di alternanza, alle alte quote, di pastori e di agricoltori che al variare delle condizioni climatiche e a causa delle crisi della pastorizia e degli incrementi demografici spesso hanno utilizzato la montagna per una economia di pura sopravvivenza. I segni più evidenti della ripresa della transumanza dopo la caduta dell’impero romano li troviamo grazie all’opera dei monasteri, soprattutto cistercensi, i quali ci hanno lasciato imponenti resti sulle più importanti zone pascolative. Oltre agli insediamenti monastici, restano le grandi strutture agro-pastorali delle più importanti famiglie di armentari quali i Cappelli nella zona del Gran Sasso e i Di Rienzo sulle montagne di Scanno. Oltre ai grandi complessi agro-pastorali, nati per uno sfruttamento razionale del territorio, sorsero numerose masserie su terreni situati al limite altimetrico delle colture o in zone particolarmente impervie e povere ad opera di coloni che non avevano altre possibilità di scelta. In alcuni casi l’accentramento di numerosi rustici, nati spesso in modo spontaneo, tendono a formare dei veri e propri villaggi stagionali. Gli esempi più noti sono quelli che troviamo sulla montagna che domina la valle del fiume Aterno : le pagliare di Tione, Fontecchio e Fagnano. La fame di terra e la necessità di buoni pascoli costrinsero numerose comunità a colonizzare le zone più alte ed impervie delle montagne appenniniche con insediamenti che da carattere stagionale divennero in molti casi permanenti. Questi antichi nuclei abitativi ebbero comunque vita breve anche a causa della « piccola glaciazione » e di un notevole decremento demografico dovuto ad epidemie e a periodi di carestia. La più recente salita verso le alte quote la registriamo all’inizio dell’Ottocento, con la messa a coltura di ripidi pendii fino a 1700-1800 metri di quota. Lo spietramento di questi campi di montagna, protrattosi fino alla metà dello scorso secolo, caratterizza il paesaggio della media montagna abruzzese con i suoi terrazzamenti, i muri, i mucchi di spietramento e le sue capanne.
Dopo l’anno mille, con una transumanza che mostrava i primi modesti segni di ripresa dopo alcuni secoli di profonda crisi, e grazie a condizioni climatiche favorevoli alle colture in quota, sorsero numerosi piccoli insediamenti, spesso favoriti dai monasteri che avevano già iniziato l’occupazione della montagna soprattutto per fini pastorali. La presenza di piccoli monasteri, di grance e di numerosi eremi a quote elevate non è solamente indice della forte spiritualità di quel periodo ma denota anche un notevole interesse economico da parte degli ordini monastici.
Nella località « Le Gondole » (1412 m), in comune di S. Stefano di Sessanio (L’Aquila), alcuni imponenti ruderi di origine medioevale ci testimoniano la perfetta organizzazione dei cistercensi del monastero di S. Maria di Casanova (Pescara) : tale complesso agro-pastorale era di supporto al vicino complesso pastorale di S. Maria del Monte (1616 m) che poteva ospitare ben 7 000 capi di bestiame. A quote ancora più elevate, sul piano di Campo Imperatore, si trova la grancia pastorale dei monaci camaldolesi di S. Nicolò di Fano a Corno (oltre 1700 m) che poteva contare sul supporto del vicino eremo-ospizio di S. Egidio (1700 m).
Sulla Majella aveva sicuramente una funzione agro-pastorale il piccolo monastero celestiniano di S. Antonino, in comune di Campo di Giove (L’Aquila). Si trova a circa 1400 metri di quota, fra il limite superiore delle colture e i pascoli del versante meridionale del massiccio. Il monastero viene citato nella bolla di Gregorio X ; infatti esso è stato costruito prima del 1274. Nel 1285 fu ceduto ai Pulsanesi in cambio di S. Pietro di Vallebona, altra grancia fondata nel 1140
Dobbiamo pertanto constatare che le testimonianze materiali più rilevanti che ci sono rimaste del periodo medioevale si riferiscono sia per la pastorizia, sia per l’agricoltura all’opera dei monaci.
A chi frequenta la montagna al di fuori dei soliti itinerari capita a volte di imbattersi, in una fascia altimetrica che va dai 1000 ai 1600 metri, in misteriosi ruderi in zone isolate e spesso impervie. In numerosi casi tali resti si riferiscono a piccoli villaggi abbandonati da parecchi secoli in seguito a molteplici cause. Ma i segni di questi antichi insediamenti non sempre sono evidenti, anzi in alcuni casi solo il toponimo, le carte d’archivio o la tradizione popolare testimoniano l’antica presenza.
Nei documenti d’archivio di molti paesi è frequente trovare notizie su antichi villaggi medievali sparsi nel loro territorio. Palena (Chieti) ne contava ben undici alcuni dei quali arroccati sulle cime dei monti come Pizzi Superiore (Lisciapalazzo, 1350 m), Pizzi Inferiore (Posta Ciufello, 1200 m) e Forca Palena (Passo della Forchetta, 1400 m.). Nel vicino territorio di Pizzoferrato (Chieti) troviamo un altro interessante esempio nella Rocca d’Albano ed un altro ancora sulle pendici di Monte Secine (Colle delle vacche, 1615 m).
Sull’Altopiano delle Cinquemiglia (L’Aquila) esistevano diversi piccoli centri e la chiesa della Madonna del Casale è quanto rimane di uno di questi : Casalguidoni (1300 m). Nei pressi di Piano Locce in territorio di Barisciano (L’Aquila), esistevano altri modesti centri nati per la coltivazione degli ampi pianori e per lo sfruttamento dei pascoli delle circostanti pendici.
L’innumerevole quantità di grotte nella zona conferma un habitat pastorale molto bene attrezzato e difeso contro il freddo e i lupi. La vicinanza, a circa mezz’ora di cammino, di piccoli villaggi come S. Angelo, S. Basilio, S. Nicola ed altri, tutti estintesi dal XIV al XVI secolo, consentiva per il minore isolamento, rispetto alla grancia di S. Maria Tra i Monti, una migliore qualità di vita. Potremmo anzi ragionevolmente supporre che questi piccoli villaggi sorti per sfruttare con una povera agricoltura, grano orzo miglio farro spelta cicerchia lenticchia, le piccole vallate montane, sempre però con un ruolo subalterno alla pastorizia, abbiano resistito finché viva era stata l’attività e la presenza cisterciense.
Testimonianze simili a quelle citate sono presenti in quasi tutto l’arco appenninico, anche se solo in alcune regioni si sono condotte ricerche approfondite. La presenza di questi antichi insediamenti agro-pastorali e il loro abbandono, avvenuto nella maggior parte dei casi intorno al XIV-XV secolo, testimoniano un mutamento climatico, che non ha più permesso lo sfruttamento agricolo dei terreni a tali quote, e la contemporanea e prepotente espansione della pastorizia. Non è un caso che si sia tornati a coltivare a queste altezze solo in seguito alla crisi della pastorizia transumante e alla fine della piccola glaciazione.
Altro fattore determinante per l’abbandono di questi piccoli centri di montagna dobbiamo attribuirlo ad una forte crisi demografica causata da carestie ed epidemie di peste che hanno fatto sentire il loro effetto in tutta Europa. Lo sfruttamento della montagna non era solo una prerogativa dei monasteri, poiché ricche famiglie, soprattutto di armentari, costruirono grandi complessi fino a quote elevate. Un esempio evidente lo troviamo nella Val Chiarino dove appare chiara l’organizzazione agro-pastorale dell’azienda Cappelli, articolata in una struttura di base, costituita da un casale, da un molino5, dalla chiesetta di S. Martino e da alcuni stazzi, Vaccareccia, Solagne e Vennacquaro posti a quote diverse ed ognuno con la sua precisa funzione.
Nella vicina Valle del Vasto troviamo un’altra grande masseria anch’essa appartenuta ai Cappelli. Il complesso è nobilitato dalla presenza dell’antica chiesa di S. Maria del Vasto che ci ricorda l’esistenza di un centro abitato. Poco più a valle di questa si vedono i ruderi del Casale della Jenca e le vicine grotte adibite a rustici : entrambi i complessi stanno a testimoniare un intenso sfruttamento agricolo e pastorale della valle.
La Castelletta di Palena (Chieti) è un esempio abbastanza raro in Abruzzo di masseria fortificata, costruita forse tenendo presente le belle e numerose masserie pugliesi. È evidente la destinazione agro-pastorale del complesso, conservatosi fino ai nostri giorni, che sfruttava i terreni occidentali dei monti Pizzi. Ma tale insediamento agro-pastorale costituisce probabilmente l’eredità di una delle antiche ville di Palena (Castello Alberico).
Un altro esempio di complesso agro-pastorale è quello di S. Liborio, in territorio di Scanno (L’Aquila), appartenuto fino ad alcuni decenni orsono ad un’altra nota famiglia di armentari : i Di Rienzo. Oltre alla masseria troviamo una chiesetta ancor oggi frequentata nella ricorrenza del santo. Non a caso a pochi metri da questo complesso, sulle ripide pendici che costeggiano il torrente Tasso, vi sono tre mulini che sfruttano con un articolato sistema di canalizzazioni la stessa acqua per animare le macine.
Fino alla fine del 1700 il paesaggio della montagna appenninica aveva mutato il suo aspetto paesaggistico soprattutto a causa dei disboscamenti fatti per favorire la pastorizia. Ma per quanto riguarda la modifica dei pendii e la costruzione di ricoveri e recinti si era fatto ben poco : la pastorizia si serviva in prevalenza di modeste strutture in pietra a secco abbinate, nella maggior parte dei casi, a strutture lignee per la copertura delle capanne e la chiusura dei recinti ; l’agricoltura aveva occupato solo i suoli più fertili in fondo alle vallette e alle doline con modesti esempi di terrazzamento e con minimi spietramenti. In ogni caso, ovunque fosse presente una economia mista di pastorizia e agricoltura, il paesaggio era sostanzialmente quello dei campi aperti al fine di conciliare queste due forme di utilizzo del territorio e di permettere la concimazione dei campi attraverso il passaggio e la stabbiatura delle greggi. In diverse zone della montagna aquilana « i campi aperti » si sono conservati fino ai nostri giorni.
Ma il profondo cambiamento del paesaggio montano dell’Appennino centro-meridionale e in particolare dell’Abruzzo, ha inizio nei primi decenni dell’Ottocento con l’eversione della feudalità . L’eversione feudale rese disponibili vaste proprietà feudali ed ecclesiastiche e parte dei demani comunali : i terreni vennero in parte quotizzati ed alienati ai nuovi coloni provenienti da una pastorizia ormai in crisi e da un notevole incremento demografico. Se andiamo ad esaminare il « Catasto Provvisorio » o « Napoleonico » dei paesi montani troviamo numerosi fondi agricoli dove un tempo era bosco o pascolo. L’occupazione delle terre demaniali iniziata con la stesura del catasto provvisorio aveva favorito la nascita di tanti piccoli edifici rurali :
Che una porzione della tenuta in contrada del « Limite de’ Monaci » e « Macchia Metola » sia in mano de’ coloni Luigi, Giorgio e Giustino Di Nardo i quali vi han fabbricate due casette rurali…
In queste terre i possessori vi han istituite piantagioni, edificati casolari, costruito macerie…
- Archivio di Stato di Chieti, Atti Demaniali, Roccamorice, Cartella 132, Fasc. I, Foglio 77
Nello stesso Catasto possiamo inoltre vedere la nascita di numerosi mulini : tale incremento non era dovuto solo al fatto che si era ormai liberi di costruirli ma anche al notevole aumento delle produzioni cerealicole. Le tipologie di questi insediamenti montani nati dalla fame di terra possiamo classificarle in tre categorie : masserie isolate, villaggi stagionali, capanne o complessi di capanne.
Oltre ai grandi complessi agro-pastorali citati, nati per uno sfruttamento razionale del territorio, sorsero numerose masserie su terreni situati al limite altimetrico delle colture o in zone particolarmente impervie e povere ad opera di coloni che non avevano altre possibilità di scelta. Sulle carte topografiche tali insediamenti sono indicati con il termine « case » o « masseria » seguito dal cognome della famiglia proprietaria.
Arischia (AQ). Il Casale Cappelli, restaurato di recente, rappresentava il centro delle attività agro-pastorali dei Marchesi Cappelli nella Val Chiarino.
Sul Gran Sasso meridionale tale tipo di insediamento stagionale si è spinto a quote elevate. I complessi avevano in prevalenza funzioni pastorali ma ovunque vi fossero le condizioni adatte era praticata anche una modesta agricoltura. Potremmo ricordare a titolo di esempio le case Micantoni, le case d’Antoni, le case Cococcia, la masseria Matarazzi e le casette Mortale. Il motivo della salita a queste quote è da ricercarsi nella morfologia del terreno ; vallette riparate e ricche di humus offrivano la possibilità di integrare con modeste produzioni agricole i profitti della pastorizia stanziale. Le « stinzie » del Vallone d’Angri, in Comune di Farindola (Pescara), erano abitazioni stagionali disseminate nella valle ognuna sul proprio fondo agricolo.
Le numerose masserie di Pescocostanzo, tutte situate nel Primo Campo a quote intorno ai 1300 metri, sono ancora oggi abitate. Molto probabilmente esse nacquero come insediamenti stagionali e solo in seguito, grazie alla migliorata viabilità invernale, hanno assunto carattere di abitazioni permanenti. Ormai abbandonate da tempo sono invece le masserie di Ateleta (L’Aquila), alcune delle quali si trovano ad oltre 1400 metri di quota sul versante meridionale del monte Secine (Masserie Maccaroni, Carmenicola, Sciulli…). In alcuni casi l’accentramento di più rustici, nati spesso in modo spontaneo, tendono a formare dei veri e propri villaggi stagionali. Gli esempi più noti sono quelli che troviamo sulla montagna che domina la valle del fiume Aterno : le pagliare di Tione, Fontecchio e Fagnano
È chiaro che il trasferimento di numerose famiglie in queste sedi estive denota una estrema frammentarietà dei fondi rustici. Infatti una grossa proprietà terriera determinava la nascita di una grande masseria, come quella di Piano S. Marco di Castel del Monte o la Castelletta di Palena, mentre appezzamenti di media grandezza richiedevano la dislocazione dei rustici sui rispettivi fondi agricoli (Stinzie del Vallone d’Angri, Masserie di Iovana (Scanno), Masserie di Ateleta, Casini della Valle di Vusci (Carapelle Calvisio). La nascita di questi piccoli centri a carattere temporaneo poteva dipendere in sostanza, oltre che dalla già citata frammentarietà dei fondi rustici, da altri fattori : la disponibilità di terreni coltivabili concentrati in zone molto lontane dal paese, spesso a quote elevate, senza avere valide e più comode alternative e la necessità di abbinare all’agricoltura una pastorizia stanziale o viceversa.
Fra i centri abitati di Tione, Fontecchio e Fagnano ed i rispettivi villaggi stagionali troviamo una differenza di quota di circa 500 metri. Le scarse possibilità di pascolo nei pressi dei paesi e la necessità di incrementare le aeree coltivabili hanno indotto gli abitanti ad un esodo stagionale. Anche il villaggio stagionale di S. Pietro della Genca, appartenente agli abitanti di Camarda (L’Aquila), poteva contare sui terreni coltivabili della sinistra idrografica della Valle del Vasto e sui pascoli del versante meridionale del Gran Sasso.
Le costruzioni presenti nei villaggi stagionali rispecchiano le caratteristiche di altri edifici rustici più o meno isolati : la stalla a piano terra ed il fienile al piano superiore ; la maggior parte degli edifici si trova su pendio, con l’ingresso alla stalla verso valle e quello al fienile sul lato a monte. I coloni che si trasferivano in questi villaggi nella stagione estiva e si adattavano a dormire nel fienile anche se non mancano esempi in cui si trova un ambiente destinato esclusivamente a funzioni abitative. In genere l’elemento accentratore di questi rustici era un punto d’acqua : pozzo (Tione), laghetto (Fontecchio), sorgente (S. Pietro della Genca). La migrazione più numerosa, quella che ha modificato il paesaggio delle montagne, è stata sicuramente quella di quei coloni che si sono adattati a coltivare minuscoli fazzoletti di terra e a portare al pascolo pochi capi di bestiame nelle zone più pietrose.
La cerealicoltura si diffuse in tutta la montagna interna, nei piccoli appezzamenti individuali ma anche nelle aree demaniali precedentemente destinate al pascolo ; la varietà coltivata era prevalentemente quella del cosiddetto grano germano, adatto al clima rigido delle quote medio-alte e alte. Per sfamare le popolazioni montane non bastavano più le poche vallette dove il tempo aveva accumulato terra fertile rubandola ai pendii circostanti ; tutti i terreni furono invasi da uomini che dall’alba al tramonto si affannavano per trasformare brulle pendici in campi da cui ricavare un minimo per sopravvivere. Anno dopo anno furono accatastate e ammucchiate pietre, furono alzate mura di contenimento, furono riparati i crolli e convogliate le acque ; alcune volte con maestria innata, altre volte con l’arte appresa nella lontana Puglia, o semplicemente guardando e copiando il vicino più bravo.Al disordinato mucchio di spietramento si sostituirono ben presto forme ordinate e precise di accumulo (circolari, a carena, ecc.) con lo scopo di rubare meno terra ai coltivi e di creare strategiche riserve di umidità . L’accumulo non veniva realizzato solo ai bordi del campo ma ovunque i consistenti affioramenti di calcare rendessero il terreno non coltivabile.In questo paesaggio di pietra ancor oggi vediamo, dopo decenni di abbandono, i segni inconfondibili di quei vecchi coltivi : muri di contenimento che a volte delimitano fazzoletti di terra ; varchi nei muri a secco che conducono a campi dove vecchi ciliegi fioriscono ancora ; e capanne, centinaia di capanne in pietra che per tanti mesi costituirono l’unico ricovero del contadino.
Tutto veniva realizzato con la pietra. Una piccola capanna, un minuscolo vano ricavato in una macera o nel muro del terrazzamento, erano spesso sufficienti per le esigenze del proprietario del fondo, ma dove la proprietà richiedeva maggiori forze lavorative la capanna doveva assumere dimensioni proporzionali a queste. Se a un discreto fondo agricolo si aggiungeva un certo numero di capi di bestiame, le condizioni erano sufficienti per la nascita di un complesso agro-pastorale con capanne e recinti in pietra a secco dove intere famiglie potevano trascorrere lunghi periodi o addirittura l’intera stagione estiva. In molte zone della montagna aquilana i ricoveri furono realizzati in modo diverso : scavando i pendii. Grotte artificiali divennero rifugio e base di appoggio per uomini ed animali. L’esempio più evidente lo troviamo a Piano Locce e nelle valli limitrofe, dove ancor oggi si coltivano lenticchie e alcune greggi pascolano sui pendii che circondano il piano. Ai piccoli ingressi rinforzati con muri a secco seguono uno stretto corridoio e un vasto ambiente, che si spinge profondamente nel pendio, adatto ad accogliere uomini ed animali. In corrispondenza dell’ingresso un foro sulla volta provvede all’areazione della grotta.
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Riferimenti
Edoardo Micati, « Pastorizia e agricoltura di sopravvivenza alle alte quote. Tipologie insediative », Mélanges de l’École française de Rome – Antiquité [Online], 128-2 | 2016, Messo online il 13 juin 2016, consultato il 10 février 2020. URL : http://journals.openedition.org/mefra/3488 ; DOI : https://doi.org/10.4000/mefra.3488
Autore
Edoardo Micati – Club Alpino Italiano – micatiedoardo@interfree.it
Diritti d’Autore
© École française de Rome
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