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Vi è un lungo cammino fatto di tracce lasciate dai miti e i riti che costellano le tradizioni precristiane che già alludevano profeticamente alla Pasqua. Tra questi spiccano le celebrazioni in onore del greco Adone, del dio babilonese e sirio Tammuz e infine di Mitra. Tutti questi miti primaverili avevano un tema ricorrente: un sacrificio cui succede una creazione-rinascita, simboleggiati dal sole che incrocia e poi supera la linea dell’equatore celeste passando da nord a sud
La Pasqua celebrata oggi è invece cadenzata dalle fasi lunari, il suo essere mobile è dovuto alla luna: la data di questa festa si ricava dalla domenica successiva al plenilunio che segue l’equinozio di primavera. Il collegamento con la luna è dovuto allo stretto legame che unisce la pasqua ebraica con quella cristiana: quest’ultima venne fondata durante il Pesah (la pasqua ebraica) che si cominciava a celebrare (come ancora oggi) la sera del 14 di nisan, ovvero al plenilunio del primo mese lunare dopo l’equinozio. L’ultima cena si svolse la sera del primo plenilunio primaverile, e così i cristiani fissarono la Pasqua alla domenica successiva alla festa ebraica per sottolineare l’evento fondamentale della Resurrezione. Prima di analizzare la ritualità gastronomica della Pasqua è doveroso introdurre le usanze alimentari che caratterizzavano i quaranta giorni che la precedevano: la Quaresima. Periodo dedicato proprio alla preparazione fisica e spirituale delle feste pasquali e quindi caratterizzato dall’obbligo del digiuno e dell’astinenza dai cibi più agognati, una vera pena per chi subiva quotidianamente i limiti della scarsezza alimentare. Proprio per questo l’immaginazione popolaresca la raffigurava come una vecchia ossuta e triste, vestita di nero, ecco perché gastronomicamente parlando era descritta al pari con un’aringa in mano. Era imperativo infatti mangiare di magro, non si poteva mangiare la carne e tutti i grassi animali, neppure i latticini per lo più erano permessi, e delle uova era permesso consumare solo il bianco. Restavano a disposizione il pane, la polenta e gli ortaggi. Tante verdure, tante insalate, i minestroni (a base d’acqua) e svariate zuppe di magro, fatte di sole erbe, senza condimenti, solo un po’ di olio nelle zone in cui c’era, oppure le farinate di fagioli bianchi, bolliti e setacciati e la pasta coi ceci. Nonostante questi piatti di mortificazione gli ingredienti utilizzati si integravano sapientemente dando vita a piatti come il caniscione verde napoletano ( base di bietole, olive e acciughe), i ravioli di magro emiliani fino ai sardi culingionis. I secondi di Quaresima vedendo bandita la carne ammettevano però quella di lumache, e poi naturalmente il pesce. Alimento questo difficile da trovare se non si fosse stati ricchi o abitanti in un posto di mare. In ragione di questo era utilizzato in special modo quello conservato, salato, seccato, affumicato o marinato.
Ed ecco che le tavole di riempivano di ricette a base di aringhe, alici, stoccafisso e baccalà. Per dolci di “mortificazione” si segnala un pane quaresimale; è il pan di ramerino di origine toscana. Viene descritto come tondo, fatto di farina bianchissima impastata con olio e con l’aggiunta di rosmarino uva passa e zibibbo. Vista la difficoltà di contenere le dosi di zucchero e di non potersi aiutare con i grassi animali si dava vita a dolci che metaforicamente sono un punto di incontro tra una prima portata e un dolce vero e proprio: nascono così gli spaghetti di Quaresima a base di pan grattato, noci tritate zucchero e spezie tipici della Romagna come ci segnala l’Artusi, oppure i tortelli di Ceci; mezzelune di pasta sfoglia con dentro un ripieno di ceci secchi e castagne, zucchero e mostarda oppure sopa. A Roma era il periodo del maritozzo, la famosa pagnottella dolce di pasta reale e miele, pinoli, canditi, a base di olio di oliva cotta al forno. Ma arriviamo adesso alla vera e propria festa di Pasqua e alle tradizioni gastronomiche che la animavano, la settimana santa era introdotta dalla domenica delle Palme. Giornata, quest’ultima, ancora dedicata al raccoglimento spirituale in commemorazione dell’entrata di Gesù in Gerusalemme. I pasti sono ancora discreti e semplici: latte cagliato o pasta con i ceci. In Sicilia, a Gela, era d’uso la pasta coi finocchietti teneri e selvatici,”i finocchi rrizzi”, condita con i pinoli, uva passa, filetti di acciughe, pan grattato. Era vietato cospargerla con il formaggio e l’utilizzo di una pasta che non fosse corta. Come abbiamo visto il preambolo della Quaresima serviva a preparare spiritualmente al giorno di Pasqua, si cercava di ripulire l’anima, ma non solo. E da questa pratica religiosa che dobbiamo l’usanza delle famose “pulizie di pasqua”: tutto doveva brillare fuori e dentro la casa, il detto non transige: “la palmetta vuole la casa netta”. Con la veglia di Pasqua si sciolgono infine le campane, tenute in silenzio per tutto il periodo quaresimale, e si inizia a cucinare “adagino, adagino” le carni per il pranzo di Pasqua mentre per corroborare il fisico, mortificato dalle privazioni, si faceva il brodo. Vi era anche l’usanza di benedire pubblicamente i coltelli dei macellai, rimasti inoperosi per tutto il periodo della Quaresima.
# Il Capoluogo
Il grande pranzo pasquale doveva essere una rivincita dell’appetito sui digiuni subiti, ecco quindi spiegata la sua ricchezza. Così le tavole venivano decorate con le spighe, le uova e l’agnello, simboli forti di questa festa. I primi piatti proposti durante il pranzo non sono esclusivi di questa festa, o ad essa strettamente correlati, sono pietanze a base di pasta per lo più ripiena e in brodo. Autenticamente pasquale è invece la minestra di passatelli romagnola: un impasto di pangrattato, uova, grana, midollo di bue, profumato di noce moscata e fatto passare attraverso i buchi del passapatate poi tuffato nel brodo. I cibi “sacrali” obbligatori erano quindi il pane, le uova, l’agnello e le erbette di campo.
La casa di Pasqua doveva profumare di pane fresco che posto sulla tavola aveva il compito di ricordare il prodigio della germinazione del grano, ricordo del pane azzimo, tramandato anche dalla cristianità. Mangiare pane era segno di devozione, comunicava il senso della pace fra gli uomini. Le uova con la loro forte simbologia legata al tema della rinascita, della vita che si rinnova, auspico di fecondità venivano decorate e portate in chiesa per essere benedette prima del consumo. A pasqua si mangiavano soprattutto sode o classicamente associate al pane tramite ricette di torte salate o torte verdi a base di erbette di campo, la torta Pasqualina è la più famosa di queste ricette. Scendendo verso il sud Italia questa viene per lo più soppiantata dalle torte al formaggio composte da uova, pecorino fresco, farina e olio d’oliva.
Le pietanze salate si concludono con l’agnello. Ancora una tradizione ripresa dall’ebraismo, che lo voleva arrostito (secondo i dettami della cucina ebraica), consumato per intero, senza spezzarne le ossa e consumato con parenti e amici. Gli eventuali avanzi andavano bruciati perché non era permesso disperdere ciò che era stato benedetto. Ogni regione ha la sua modalità di cottura, la sua ricetta. In Toscana è chiamato pilottato, ed è cotto lentamente allo spiedo, in Puglia si cuoce “u’verdette” ovvero spezzettato, cotto al forno e accompagnato con un salsa verde di piselli, pecorino e prezzemolo… insomma cambia la regione e così cotture e accompagnamenti, ma l’agnello rimane fondamentale simbolo di questa festività. Il pranzo pasquale si conclude con i dolci, ed è un tripudio di golosità a base di uova, sia nell’impasto che nella decorazione. Sono Pani dolci, impreziositi da uova trattenute da una crocerina che simboleggiano l’abbraccio tra il grano e l’uovo, arcaico messaggio che incarna lo spirito di questa festa. E poi casatielli, angulis, cilicin… e pani che via via diventano più zuccherati, più ornati, più speziati per meglio partecipare alla devozione e per adeguarsi all’importanza della solennità, che si esaltano trasformandosi nei grandi dolci regionali della tradizione pasquale.
Arriviamo così alla famosa colomba, il dolce che riesce a unificare le golosità locali, interpretando anche nella forma l’ancestrale impronta votiva perché il formato, la modellazione, gli ingredienti dei dolci rivelano le attese, le aspirazioni, le invocazioni che fanno da sfondo alla festa cui sono dedicati. Le festività pasquali si chiudono con il lunedì dell’Angelo, giorno dedicato alla classica gita fuori porta. A Pasquetta il piatto di rito sarebbe il capretto o l’agnello fatto allo spiedo… e nell’attesa della sua cottura, al consumo di salame e uova sode. Nel pavese, il lunedì di Pasqua, è tradizione preparare il “riso con le rane”, piatto che aveva fama di essere miracoloso, in virtù di un racconto che narra la guarigione di una mondina grazie a San Siro che le porse un assaggio di questa pietanza.
testo a cura di Lucia Galasso
testo e ricette Sandra Salerno
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