L’antica tradizione di Sant’Agnese, ben nota a tutti gli aquilani, consacra ogni anno in modo goliardico il rito della maldicenza. Lo scorso anno, nonostante la tragedia del sisma fosse ancora molto recente, gli aquilani hanno comunque deciso di onorare questo antico rito, sia pure in tono minore, in quanto la festa continuava a essere sentita come elemento dell’identità cittadina.
Sulle origini di questa tradizione che si festeggia soltanto a L’Aquila, e che si tramanda ormai da tanti secoli, sono due le teorie più accreditate. La prima sostiene che nei primi anni della fondazione della città, vi fossero vari gruppi di persone che si riunivano, complice il rigido inverno, presso locande ed osterie per criticare i signori di allora. Per questo motivo, uno di questi gruppi fu esiliato dalla città. Essendo stati esiliati il 21 gennaio, furono soprannominati “quelli di Sant’Agnese”. Dopo sei mesi, a seguito delle numerose richieste da parte delle madri, mogli e fidanzate, “quelli di Sant’Agnese” furono riammessi in città ma a condizione che non facessero più pettegolezzi all’interno delle mura cittadine. Presero pertanto a riunirsi presso un’osteria vicino Porta della Rivera, appena fuori dalle mura cittadine. L’altra ipotesi si ricollega al fatto che all’Aquila, a Sant’Agnese era dedicato un convento. Nel 1874, il complesso conventuale venne inglobato nelle strutture dell’Ospedale “San Salvatore” di viale Nizza, dove ancora sono visibili sia gli ambienti monastici e sia la bella chiesa di Sant’Agnese, cappella del nosocomio fino al trasferimento dello stesso a Coppito. Anticamente tale convento ospitava quelle che l’Antinori, storico aquilano, chiama le persone della “povera vita”, cioè le “pentite o mal maritate”, e tra queste anche le prostitute. Queste donne, spesso andavano “a servizio” presso le famiglie più benestanti della città, venendo così a conoscenza dei segreti delle case gentilizie presso cui lavoravano, segreti che mettevano in piazza dentro e fuori il convento, conditi con l’immancabile dose di esagerazione, ogni qualvolta avevano l’opportunità di incontrarsi e di scambiarsi confidenze e pettegolezzi. Ciò avveniva in particolare durante i festeggiamenti dedicati alla Santa cui era intitolato i convento e che giustamente, per l’occasione, le vedeva tutte riunite, anche per la gratitudine che sicuramente provavano nei confronti delle monache del convento di Sant’Agnese.Tra loro, ma qui siamo nel campo delle ipotesi, si creò una sorta di gerarchia in base alla capacità di spettegolare; una gerarchia a cui potrebbe aver preso l’eredità quella che si istituisce ogni anno, ancora oggi, con tanto di votazioni.
Nel tempo anche gli appartenenti alla nobiltà e la borghesia celebrò la festa di Sant’Agnese anche se, dato il loro ceto, veniva assegnata una sola carica, quella del Priore. Tutte le altre cariche dai nomi più fantasiosi o altisonanti, sono invece di estrazione popolana. Per questo è tradizione, a L’Aquila, la sera del 21 gennaio riunirsi in confraternite o congregazioni con lo scopo di usare bene la lingua, anche in senso gastronomico, per eleggere al loro interno le varie cariche, tratto distintivo della ricorrenza. Ce ne sono alcune storiche, che ricorrono in tutte le confraternite, ma per il resto anche qui la fantasia degli aquilani si è scatenata e c’è chi ne conta oltre duecento cariche.Ogni gruppo che si rispetti deve avere un suo Presidente, quello con la lingua più lunga di tutti, spesso aiutato da un Vice presidente o da un Segretario. A completare il direttivo non dovrebbero mancare mai la Lavannara, colei la Lima Sorda, che corrode, ma in silenzio, e la Mamma deji cazzi deji atri, che non ha bisogno di molte altre spiegazioni. Per il resto si può spaziare con la fantasia: da “Ju Zellusu”, quello che protesta sempre, alla “Recchia fredda” o “Recchia de prete”, quello che sta sempre ad origliare, alla “Lengua zozza”, a “ju Capisciò . Tra queste confraternite quella dei “Devoti di Sant’Agnese” è la più nota e da 45 anni elegge il Priore il quale, tiene a ricordare che “non si allude al “dire male” ma al “dire il male”, preservando lo spirito simpatico e mai infamante dell’antico costume.
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