Questa piccola ed assolata valle è compresa nei Comuni di Carapelle Calvisio (AQ) e Castelvecchio Calvisio (AQ), dominata dall’alto di un colle dal santuario di San Pancrazio e, sul versante opposto, dalla diruta chiesa della Madonna della Neve, anche detta Madonna delle Vigne. E’ racchiusa fra aride e brulle pendici; poco più su del fondovalle i coltivi e gli uliveti si interrompono bruscamente lasciando spazio a macchie di ginepro, ginestre e boschi cedui. La valle, vista dall’alto, è punteggiata da casali isolati ed è molto raro trovare dei piccoli agglomerati di due o tre casolari: una delle poche eccezioni è rappresentata dalla grancia di San Cristoforo, sul Colle delle Vigne. La maggior parte dei casali è abbandonata. Pochissimi di questi sono ancora utilizzati per scopi agricoli, o come seconda casa per trascorrere i fine settimana. Alcuni mostrano restauri più o meno recenti e quasi sempre un successivo e spesso definitivo abbandono. Ed è l’abbandono che ha determinato, come sempre avviene, il loro degrado, che li ha spogliati di tutti gli elementi architettonici di un certo interesse, degli antichi attrezzi agricoli e di ogni cosa che può figurare nel deposito di un rigattiere. Tutto ciò favorito dall’isolamento e dalla folta vegetazione che spesso li circonda. La peculiarità di questa valle non è dovuta alla normale e logica presenza di questi “casini” (così nella zona vengono chiamati), ma piuttosto in ciò che essi nascondono sotto le loro possenti mura e alla presenza di numerose (oltre cento) grotte artificiali: l’insieme ci dà la dimensione di una fiorente economia agricola oggi scomparsa in seguito alla fillossera che, negli anni ’20 del secolo scorso, distrusse gran parte delle vigne della valle. Esaminando alcuni toponimi della zona come Colle delle Vigne, Madonna delle Vigne o il più recente Strada delle Vigne, questi ci forniscono una ulteriore testimonianza di un tipo di coltura di cui oggi non rimane traccia se non nelle strutture fisse per la pigiatura dell’uva, nascoste nel buio delle grotte. Infatti la coltura nettamente predominante è oggi quella dell’ulivo, intervallata da rari frutteti e da campi a grano o a foraggio. Il numero di impianti di pigiatura presente nei casini e nelle grotte isolate, le dimensioni delle vasche e dei torchi a trave lasciano supporre una notevole produzione di uva. L’orientamento particolarmente felice della valle e la quota che va dai 450 ai 700 metri devono certamente aver favorito questo tipo di coltura che ancor oggi produce vini rinomati sulle assolate pendici della vicina conca di Ofena.
I CASINI
La tipologia costruttiva nettamente predominante è quella della casa di pendio. Pur non essendo i pendii molto ripidi, comunque si accede al primo piano da un lato dell’edificio e a quelli superiori dal retro. Ogni casino, anche il più piccolo, può contare su una grotta che si addentra più o meno profondamente nella montagna. A piano terra la parte in muratura, prevalentemente coperta da volte a botte, è quasi sempre molto più piccola di quella retrostante realizzata per scavo. In alcuni casi dalla grotta principale si accede ad altri ambienti laterali, dove troviamo i depositi per la paglia, gli attrezzi agricoli e delle piccole stalle. L’ambiente più grande è quello occupato dall’impianto di pigiatura per la presenza della trave del torchio che può raggiungere anche i sette-otto metri di lunghezza. I piani superiori sono estremamente semplici. Uno degli ambienti ha sempre un piccolo camino con ai lati alcuni ripostigli a muro. Le cornici delle porte e delle finestre, divelte quasi ovunque, sono sempre in pietra.
LE GROTTE
La grotta rappresenta senza dubbio il nucleo originario di ogni insediamento della valle per la facilità di scavo di questi declivi e l’economicità nel realizzare degli ambienti coperti. In alcuni casi si è poi costruito nella parte antistante la grotta chiudendola e alzando uno o più piani. In altri casi la grotta ha svolto la funzione di annesso agricolo di un vicino casino, o ha coperto da sola le esigenze del fondo. Il suo ingresso è quasi sempre munito di stipiti e di architrave in pietra; non sono rari gli architravi realizzati in legno di quercia. Sopra gli ingressi possiamo trovare piccole finestre con funzione di areazione e al tempo stesso di scarico sugli architravi. L’ingresso alla grotta può essere preceduto da un corridoio scoperto, limitato lateralmente da muri a secco. La fronte della grotta è spesso realizzata con pietre e malta per dare una maggiore stabilità alla zona d’accesso. Superiormente all’ingresso il declivio è contenuto con murature a secco. Ciò non toglie che, in alcuni casi, alcune zone di ingresso siano crollate forse per un eccessivo scavo verso l’alto e il conseguente assottigliamento della volta. Ciò giustifica la presenza, in alcune grotte, di archi in muratura costruiti presso l’ingresso. Superiormente alle zone di ingresso non è raro trovare piante di iris che hanno la precisa funzione, con il loro apparato radicale, di trattenere il terreno e di aumentare pertanto la stabilità e la resistenza all’erosione dagli agenti atmosferici della parte più fragile della grotta. All’ambiente principale, in asse con l’ingresso, si aggiungono spesso ambienti laterali, anche di notevoli dimensioni, e profonde nicchie e ripostigli.
GLI IMPIANTI DI PIGIATURA
L’impianto di pigiatura e torchiatura era costituito da una vasca, da un pozzetto di raccolta del mosto, da una grossa trave di legno collegata ad una vite senza fine e da un contrappeso solidale con la vite. Il principio di funzionamento del torchio a trave è quello di una leva di secondo genere, il cui fulcro veniva realizzato inserendo in un foro della parete la testa di un palo tenuto fermo da un perno passante che lo
ancorava alla parete di sostegno e diveniva nello stesso tempo il suo asse di rotazione. La trave passava inoltre fra due colonne in muratura che collegavano la parete esterna della vasca al soffitto: tale accorgimento era necessario per evitare spostamenti laterali della trave che, considerando il suo notevole peso, potevano rivelarsi pericolosi. La vite senza fine veniva inserita all’altra estremità del palo, terminante in genere con una forcella sulla quale si avvitava una piattabanda filettata, o con un foro passante. La rotazione provocava l’abbassamento della trave e l’aumento di pressione sulle vinacce. Continuando con l’azione di avvitamento si arrivava al massimo della pressione raggiungibile quando la pietra di base si sollevava. La prima fase consisteva nella spremitura dell’uva, con i piedi, all’interno delle grandi vasche. Seguiva la torchiatura delle vinacce, raccolte in gabbie adatte a contenerle che permettevano l’uscita del mosto. Il mosto, raccolto negli adiacenti pozzetti, veniva poi versato nelle botti. Il foro di passaggio del mosto dalla vasca al pozzetto veniva munito di un filtro per impedire il passaggio delle bucce: spesso venivano utilizzati per questo scopo gli stessi raspi. Le vasche sono tutte perfettamente intonacate e realizzate in leggera pendenza verso il foro di scarico. Questo è sempre provvisto di un beccuccio. La maggior parte del mosto veniva raccolta in recipienti posti sotto il beccuccio e solo una parte cadeva nel pozzetto; d’altra parte sarebbe stato estremamente scomodo e faticoso recuperare tutto il mosto in un ambiente così angusto. In alcuni impianti, come nella grancia di S. Cristoforo, una intera stanza svolgeva la funzione di vasca di pigiatura. Contrariamente alle “viti senza fine” di cui non restano tracce rimangono invece al loro posto i contrappesi, sia per il loro notevole peso, sia perché non costituivano oggetti interessanti per il mercato antiquario. Quelli più antichi hanno forma a tronco di cono, o a pera. La parte superiore ha un foro lungo l’asse per un breve tratto e un altro trasversale a questo: in tal modo con un perno era possibile collegare l’estremità della vite al contrappeso. Quelli più recenti hanno la forma di un grosso disco solcato da una larga scanalatura diametrale nella quale si realizzava il collegamento con la vite.
LE CISTERNE
L’assoluta mancanza nella valle di sorgenti e corsi d’acqua, problema comune ai centri abitati di Carapelle C. e Castelvecchio C. che disponevano solamente di due pozzi, ha richiesto la costruzione di cisterne per la raccolta dell’acqua in ogni casino, grotta, o anche all’aperto ovunque vi fosse un fondo agricolo. La
costruzione della cisterna interna, o in molti casi il suo scavo, precede chiaramente la costruzione del casino. Ad una bocca molto stretta realizzata in muratura, di circa 40-50 centimetri di lato, segue la cisterna che si allarga notevolmente con una capienza di diversi metri cubi di acqua. L’interno è in genere accuratamente intonacato per evitare la perdita dell’acqua raccolta. Nei casini l’acqua piovana veniva raccolta sui tetti e convogliata, nella parte alta, in gronde in muratura e tegole; alcuni discendenti in coccio interni alle mura la convogliavano nella cisterna. In molti casini troviamo canali e discendenti in metallo messi in tempi più recenti. Nelle cisterne realizzate nelle grotte è più difficile capire dove si trovasse il bacino di raccolta dell’acqua, ma possiamo supporre che a monte della grotta si realizzassero delle canalette che confluivano nella cisterna. Anche in alcune cisterne esterne al casino, a volte di notevoli dimensioni, si può pensare al convogliamento delle acque dei piccoli fossi, che in occasione di grossi acquazzoni potevano riempirle. Altre cisterne mostrano chiaramente la possibilità di poter raccogliere solamente l’acqua che cade sulla superficie concava di copertura. La necessità di acqua era tale che alcuni casini erano dotati di più cisterne, interne ed esterne al complesso.
ASPETTI STORICI
I reperti preistorici e quelli pastorali della cultura appenninica hanno rivelato l’importanza e la centralità dell’agro di Carapelle e della Valle di Vusci, riscontrabili anche in epoca successiva negli insediamenti arcaici in piccole grotte, nelle tracce di terrazzamenti e nei ritrovamenti di ceramica italica e romana. Nell’alto medioevo sono invece i documenti a parlarci della presenza umana nella zona e, in particolare, dei conflitti fra il monastero di San Vincenzo al Volturno e la popolazione locale, intenta a sfruttare, secondo i propri bisogni, quegli aridi pendii e le fitte boscaglie cercando al tempo stesso di affrancarsi dalla servitù del monastero. Il panorama insediativo di tutta la Valle del Tirino (Valle Tritana) doveva essere costituito da piccoli insediamenti sparsi, i cui abitanti vivevano soprattutto dello sfruttamento dei boschi, di caccia e raccolta e di piccoli allevamenti bradi di suini. L’opera di disboscamento da parte dei coloni era già iniziata (anche se contrastata dai monaci che nel semplice sfruttamento delle selve traevano maggior profitto) e con essa è lecito supporre un loro maggior legame al territorio con la conseguente esigenza di realizzare un insediamento più o meno stabile: come è già avvenuto in altre culture, il ricovero più economico e più veloce da realizzare, quando le caratteristiche dei terreni lo permettevano, era quello per scavo. Non si è lontani dal vero nell’immaginare piccoli nuclei di coloni ricoverati in grotte artificiali almeno fino a quando non iniziò nella zona il processo di incastellamento. Certamente tali primitive abitazioni furono in seguito utilizzate ed incrementate di numero e in ampiezza al servizio di una economia agro pastorale che sempre più andava sviluppandosi. La Valle di Vusci, particolarmente fertile nonostante la scarsa presenza di acqua, fu intensamente coltivata tanto da giustificare la nascita di una grancia, già nota nella prima metà del XIV secolo per il pagamento delle decime alla diocesi valvense. L’edificio più interessante e imponente della valle, giustamente chiamato “palazzo” o “palazzotto”, figura in molte mappe demaniali dell’inizio del 1800 con il nome di “Palombara”. Ma lo troviamo già verso la fine del 1500 fra quei beni che la Baronia di Carapelle dava in affitto. Probabilmente ai primi dell’Ottocento l’edificio era già diruto, poiché nel Catasto Francese troviamo una “casa diruta” in località “palazzo”. Un altro casale estremamente interessante, dotato di due impianti di pigiatura, è il casale Visioni, che reca inciso al disopra dell’ingresso la data 1733. Non sappiamo quando sia iniziata la coltura della vite nella valle, ma possiamo quanto meno risalire al 1692, visto che troviamo incisa tale data sulla colonna di un torchio a trave. È comunque lecito supporre che già da diversi secoli la si coltivasse. Nel Catasto Francese dei primi anni del 1800, nello “Stato di Sezioni” dei Comuni di Carapelle e Castelvecchio, moltissimi terreni figurano coltivati a vigna, in misura di gran lunga maggiore di quelli a seminativo. Nello stesso catasto troviamo nella valle la presenza di alcune case rurali, mentre non vi è alcun cenno delle numerosissime grotte presenti. È evidente che queste non venivano nominate poiché non erano tassate.
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