Il primo prosciugamento del lago Fucino
Dai testi di Plinio il vecchio, Svetonio, Tacito e Dione Cassio si traggono notizie del primo
prosciugamento del lago. Il prosciugamento si rendeva necessario per ragioni di sicurezza igienica
ed idraulici. Il bacino non aveva un vero emissario naturale, le acque defluivano irregolarmente da
un inghiottitoio carsico, in località Petogna di Luco dei Marsi, quindi il lago era soggetto ad
escrescenze enormi che comportavano allagamenti di oltre il doppio della superficie media dello
stesso e formazione di bacini malsani. La bonifica assicurava la coltura delle terre emerse e
garantiva il livello costante della porzione rimante del bacino.
Il primo a tentare il prosciugamento del lago fu Cesare, che però venne ucciso prima che adempisse
al suo proposito. Fu quindi Claudio che si adoprò in tal senso. Secondo Svetonio vennero utilizzate
30.000 persone tra schiavi e operai, lungo undici anni di incessanti lavori: si lavorava anche di
notte, su tre turni di 8 ore, in squadre, sparse lungo il tragitto del canale (da considerare anche i
lavori collaterali, preparatori e connessi). Il risultato fu un canale di 5,6 km che attraversava in parte
il Monte Salviano, per poi drenare nel fiume Liri. L’esito però non fu quello voluto, date le
numerose frane del monte già durante la costruzione e, soprattutto, nei periodi successivi, per le
quali la semplice manutenzione ordinaria non bastava. Terminati i lavori Claudio volle celebrare
l’opera con fasto, e organizzò dunque una naumachia, una battaglia navale sul lago. Al termine,
venne aperta la diga, ma l’acqua non scolò come ci si aspettava, sia per il lungo tempo necessario al
deflusso del quantitativo d’acqua del bacino reale (lago visibile) e del bacino occulto (terreno
sottostante il bacino immerso nella falda sottostante con numerose sorgenti presenti sull’intero
perimetro ed all’interno del lago stesso), che a causa di una piccola frana avvenuta poco prima
all’interno della galleria dell’emissario verso il Fiume Liri. Purgato il canale e riaperte le chiuse,
un’ulteriore frana causò una grossa ondata di ritorno che si abbatté sul palco dove la famiglia
imperiale banchettava. Di questi accadimenti vennero incolpati i liberti Narciso e Pallante, che non
erano architetti, ma prefetti dei lavori.
Restaurazioni successive
Non tanto l’inadeguatezza tecnica (altre opere di uguale complessità erano state costruite dal genio
romano) quindi, quanto proprio il tipo di roccia scavata portò ben presto e ripetutamente il canale a
colmarsi, così da rendere troppo dispendiosa la manutenzione che, sul far del tramonto dell’Impero,
venne del tutto abbandonata. Infatti dopo Traiano e Adriano pochi altri tentarono un approccio,
come Federico II di Svevia e Alfonso I d’Aragona, dei quali però non conosciamo l’esito
dell’impresa, sebbene sia ipotizzabile: Filippo I Colonna per esempio abbandonò per mancanza di
denaro.
Carlo III caldeggiò una riapertura del canale. Ferdinando I organizzò uno studio sul territorio e dal
1790 fece incominciare i lavori, che terminarono dopo due anni. Tali lavori, condotti
esclusivamente da galeotti, risultarono del tutto inadeguati, essendo costellati di frane, smottamenti
e continue infiltrazioni di acqua. Lo stesso re sostenne confronti e dispute tra vari architetti e
ingegneri, fino a che, nel 1826 non iniziò un decennale intervento ad opera dei signori Giura
(ispettore di acque e strade) e de Rivera (commendatore). Nel 1835 fu compiuta la restaurazione,
ma non terminarono le discussioni, dato che nei 20 anni successivi vi furono continui crolli.
La bonifica definitiva di Torlonia
« O Torlonia asciuga il Fucino, o il Fucino asciuga Torlonia » (Alessandro Torlonia)
Il 26 aprile 1852, con Regio Decreto borbonico, fu accordata la concessione dello spurgo e delle
restaurazione del canale claudiano a una SA napoletana nel tentativo di un prosciugamento del
Fucino. Il compenso era naturalmente in parte costituito dalle stesse terre bonificate.
Non si intendevano comprese in tale concessione “le mura e i ruderi di antiche città, gli anfiteatri, i
tempii, le statue, e generalmente gli oggetti di antichità e belle arti di qualunque sorta”, che
sarebbero state offerte alle “solerti cure dell’Instituto de’ Regii Scavi” e all’insigne Real Museo
Borbonico.
Poiché nella Società figurava il banchiere romano Alessandro Torlonia (col suo ingegnere svizzero,
e l’agente francese Léon de Rotrou), il re Ferdinando II fu accusato di aver concesso il
prosciugamento ad “alcuni stranieri per rimeritare segreti e sinistri servigi alla propria causa”
.
La Compagnia era invece composta anche dal principe di Camporeale, dal marchese Cicerale,
amministratori delegati della Società di cui Torlonia era fondatore assieme ai signori Degas padre e
figlio, banchieri di Napoli.
Abbisognando la Società di nuovi fondi, e poiché tutti si tirarono indietro, Torlonia ne acquistò le
azioni diventando unico proprietario. Successivamente però, nel 1863, dovette chiudere la sua
banca.
I lavori per il prosciugamento iniziarono nel 1855 sotto la direzione dell’ingegnere svizzero Franz
Mayor de Montricher, morto nel 1858 e furono continuati dall’ingegner Enrico Bermont, al quale
nel 1869 successe l’ingegner Alessandro Brisse, che li portò a termine nel 1876 anche se la fine
ufficiale fu decretata il 1º ottobre 1878.
L’emissario di Claudio era lungo 5630 m e, considerando i canali collaterali, l’opera raggiungeva i
7 km. L’attuale lavoro, che tra l’altro prevedeva anche il prosciugamento e la bonifica del territorio,
contava una fitta rete di canali per una lunghezza complessiva di 285 km (e, in più, 238 ponti, 3
ponti canali e 4 chiuse). Il canale claudiano attraversava il piano dei Campi Palentini a una
profondità che variava dagli 85 m ai 120 m (alla sommità del monte Salviano si misuravano 400 m
circa).
L’apertura variava dai 4,11 m2 ai 14,80 m2 con alzata di 7,14 m. Il canale torlonio segue la direzione dell’antico, con sezione costante di 19,99 m2, ma solaio da 2,39 m all’ingresso a 0,79 m all’uscita, per un flusso ordinario all’uscita di 28 m3, che può salire fino a 67 m3.
.
La piana così prosciugata doveva essere quindi resa lavorabile e abitabile, e per tal motivo
occorreva costruire case, fattorie e strade. Una strada di 52 km ora circonda il bacino (ex-proprietà
Torlonia) e 46 strade rettilinee, parallele e perpendicolari, per un totale di 272 km. Oltre ai 24
milioni di lire spesi per il solo prosciugamento, quindi, ne vennero impiegati altri 19.
L’impegno profuso, le risorse economiche e i 4.000 operai al giorno utilizzati per 24 anni, spinsero
il nuovo re Vittorio Emanuele a conferire a Torlonia il titolo di principe e una medaglia d’oro, e
all’ingegner Alessandro Brisse l’onore di un monumento al cimitero del Verano di Roma.
Il prosciugamento del Fucino mutò profondamente le caratteristiche socio economiche della
popolazione e le condizioni climatiche della Marsica fucense. Durante il secolo appena trascorso il
Fucino fu teatro di vicende economiche, sociali ed umane che la Storia e la letteratura hanno
registrato.
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