Il mito, la leggenda, l’irrazionale sembrano ormai rimossi dall’immaginario di una società come quella contemporanea votata alla tecnologia, alle scienze fisiche e sperimentali e ai loro metodi, cui si attribuisce (spesso ingiustificatamente) la capacità di soddisfare tutti i problemi e i bisogni dell’uomo. Eppure sotto la patina asettica di tale visione neopositivista, l’uomo continua subire il fascino di quelle storie che hanno la potenza irresistibile dell’archetipo, del simbolo: a partire da quelle in grado di riproporre l’eterna dicotomia fra Bene e Male. In una terra antica come l’Italia, e come il Sud in particolare, le suggestioni in tal senso non mancano, a volte nascoste nelle pieghe più recondite dei luoghi in cui viviamo, e non di rado dimenticate, eppure sempre lì pronte a sorprenderci ancora. E’ il caso ad esempio di Atessa, cittadina abruzzese in provincia di Chieti, affacciata sulla valle del fiume Sangro e posta sulla sommità di un rilievo a forma di mezzaluna, isolato sulla campagna circostante.
Collocato in un territorio che si articola fra pianura ed alta collina, con stratificazioni geologiche sabbiose che ci parlano di remoti fondali marini, il borgo di Atessa custodisce un antico mistero che ha il suo fulcro nel locale Duomo di S. Leucio, intitolato a quel Leucio d’Alessandria d’Egitto vissuto fra IV e V secolo e passato alla storia come primo vescovo di Brindisi e santo venerato dalle chiese cattolica e ortodossa. Costruito nel XIII-XIV sec. su una prima chiesa intitolata al santo nell’874, la cattedrale reca oggi tracce architettoniche e stilistiche che vanno dal gotico al barocco. Nella sua sagrestia il tempio custodisce un bizzarro ”oggetto” intorno al quale ruota la leggenda che sto per raccontarvi: in una teca di vetro, circondata da un’inferriata, è visibile una enorme costola (di circa 2 metri) che la tradizione attribuisce ad un drago per lungo tempo motivo di terrore per gli abitanti del luogo finché non arrivò S. Leucio ad ucciderlo.
Ma procediamo con ordine. In principio vi erano due villaggi, Ate e Tixa, separate da una valle paludosa e mefitica nella quale si vuole abitasse un pericolosissimo drago. Due fiumi, l’Osente e il Pianello (oggi noti come Osento e Sangro), formavano infatti numerosi acquitrini che alimentando una palude malsana, garantivano al drago il suo ambiente ideale. La sua presenza impediva agli abitanti delle due cittadine di incontrarsi, se non a rischio della propria pelle.
A liberarli dalla presenza del mostro ci pensò però S. Leucio che, raggiunta la tana del drago, lo nutrì per tre giorni di carne e, resolo sazio, lo incatenò uccidendolo dopo sette giorni. Inoltre ne conservò il sangue, poi utilizzato dalla popolazione a scopi terapeutici, e una costola, consegnata agli abitanti perchè serbassero memoria dell’accaduto. Una tradizione parallela aggiunge che il gigantesco animale sarebbe stato ritrovato morto dinanzi alla chiesa dei monaci Basiliani, che sorgeva al centro di uno dei due villaggi. Ad ogni modo, la cupa forra che li separava fu colmata permettendo ad essi di unirsi in una sola città, Atessa. La cattedrale in cui venne collocata l’insolita reliquia della costola, pare sia sorta proprio in simbolica corrispondenza del luogo in cui il terribile drago aveva la sua grotta.
Della leggenda del drago una dettagliata testimonianza è leggibile nel libro di Giovanni Pansa “Miti, leggende e superstizioni dell’Abruzzo”, del 1924. L’autore raccolse la leggenda dal professore Domenico Ciampoli, che a sua volta la trascrisse dal racconto orale fatto il 9 maggio 1909 da una tale Ernesta Miscia di Atessa. Pansa racconta come la costola del drago, esposta da tempo immemorabile, pendesse nel passato da una delle travi del soffitto. La leggenda riportata nel libro vuole che la tana del drago – con l’ingresso largo più di cinquanta palmi – si trovasse a valle San Giovanni, in una grotta profondissima la cui cavità attraversava tutto l’Abruzzo. Da quella grotta, in località Ritifalco, si estendeva inoltre un bosco di spini talmente folto, che neppure gli uccelli potevano volarvi dentro. Il dragone che viveva in quel luogo, inizialmente si nutriva di pecore, capre ed altri animali, ma improvvisamente cominciò a divorare un abitante del posto al giorno. Come già detto, fu S. Leucio a soggiogare la bestia con la forza della fede, dopodichè la uccise estraendogli una costola a prova della eroica impresa che permise ai due villaggi di unirsi dando vita ad Atixa (Atessa).
Atessa (CH) – Panorama
Secondo alcune fonti, quella strana costola oggi custodita nella sagrestia del duomo di San Leucio, avrebbe fatto parte di un gruppo di ossa di enormi dimensioni rinvenute ad Atessa in una località chiamata Valdarno. Pertanto alcuni studiosi che, scetticamente, cercarono già in passato di dare una interpretazione meno fiabesca di questa leggenda, ipotizzarono che tali resti fossero da ricondurre ad elefanti portati in Italia da Pirro oppure da Annibale durante il suo transito in Abruzzo, ma la spiegazione non convince quanti fanno rilevare come la costola di elefante sia più piccola rispetto a quella custodita nel duomo di Atessa. Ipotesi più recenti hanno invece dirottato l’attenzione sul versante marino, ritenendo che l’osso in questione possa essere appartenuto ad un Misticeto, ossia un cetaceo dell’omonimo sottordine di cui fanno parte Balenottere, Megattere e Balene in senso stretto. Una tesi, secondo alcuni, non del tutto peregrina ed eventualmente suffragabile tramite il raffronto con ossa analoghe, di sicura origine marina, presenti in diverse località italiane. Del resto, come dicevamo all’inizio, ad Atessa si conservano tracce di primordiali fondali marini in strati geologici sabbiosi e l’eventuale ritrovamento di un enorme osso fossile è facile che – in epoche di forte superstizione – scatenasse la fantasia popolare.
Lo stesso Pansa sopra citato propende per una possibile lettura simbolica di quel reperto, scrivendo nel suo libro che “lo straripamento dei fiumi, le paludi mefitiche, i siti lacustri infetti dalla malaria, sono fenomeni naturali che il medioevo impersonò costantemente con la figura del dragone”: uno stato dei luoghi confermato anche dal topografo ottocentesco Giuseppe Del Re che definisce i dintorni di Atessa come “una palude malsana di 6000 moggi”. Se questa lettura fosse giusta, nulla di più semplice è immaginare che la bonifica delle paludi posta in essere dai monaci di Atessa sia apparsa alla gente del tempo come una rinascita e che la infelice natura originaria dei luoghi sia stata simbolicamente paragonata ad un mortifero dragone.
di Kasia Burney Gargiulo
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