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Fontecchio, borgo attivo

Cenni storici

Si parte dalla piazza, naturalmente. Probabilmente proprio qui è cominciato tutto, nella piazza, dove si univano il tracciato che percorreva la valle e quello trasversale che scendeva dalla città Romano-Vestina di Peltuinum – e poi, attraversato l’Aterno al “Ponte le Pietre”, risaliva verso la Pagliare e l’altipiano delle Rocche, per poi scendere giù, verso le terre dei Marsi e degli Equi. Pare che in questo incrocio ci fosse, da tempo immemorabile, una luogo di culto di una dea delle fonti cui doveva essere dedicato il tempio, probabilmente collocato sotto l’attuale chiesa parrocchiale. La piazza rimane il punto cruciale della nostra storia nonostante che, durante il periodo antico, quello dei Vestini, l’abitato fosse posto più in alto, sul monte San Pio e poi, in periodo romano, fosse in parte sceso a fondovalle, attorno al tempio dedicato a Giove (se ne vede il basamento sotto la chiesa di Santa Maria della Vittoria). Sulla piazza c’era il mercato (e c’è ancora qualche volta); si faceva (e si fa ancora talvolta) il pane nel forno medioevale, dentro uno dei suoi sette archi; c’erano le tante botteghe medioevali degli artigiani che facevano scarpe e pregiate candele di sego; c’era un mulino; c’era il mattatoio; c’era e c’è la chiesa ma soprattutto c’è l’acqua da portare nelle case con le conche in bilico sul capo: la fonte che ha dato il nome al paese, “Fonticulum” oppure Fons Tiche (la dea greca della sorte). Sotto la piazza, un sistema di raccolta delle vene d’acqua, alimenta da secoli, quasi senza manutenzione, la bella fontana trecentesca che campeggia pure nello stemma del paese, fra due leoni rampanti. Tutt’intorno, un lungo sedile di pietra dove le donne attendevano il loro turno, chiacchierando. Due accessi diversi conducevano alla fontana, uno dalla Villetta, uno da San Nicola mentre un cannello d’’oro pare fosse riservato al solo Barone. Due grandi lastroni romani di pietra giacciono di fianco alla fontana e pare siano stati portati a valle da un alluvione ottocentesca, lungo lo scolo che attraversava tutta la piazza e si buttava poi nel cosiddetto “braccio”.

Tre particolari, nella piazza, ci raccontano altrettante storie significative. Primo: sul muro dell’odierna Trattoria della Fontana, si vede una finestrina con incisa la data 1705, giusto due anni dopo il tremendo terremoto che ha devastato l’Aquila; la finestrina si apre su un muro aggiunto a scarpa per rinforzare l’edificio; se entrate nel ristorante vedrete ancora il profilo della bottega medioevale che tale muro è andato a chiudere; questo ci dice – ma potremmo vederne tante altre tracce – che i terremoti non sono, in questa terra, una evento strano ma sono uno degli elementi chiave dei paesi e della loro architettura. Secondo: scesi dalla scalinata della fontana, sul muro di parapetto a sinistra, c’è una iscrizione del ’700 che celebra la fonte e la salubrità delle sue acque e ricorda che da essa viene il nome del paese. Terzo: sul lato dell’edicola della madonna dell’uccellino, sopra la fontana, si vede dipinto lo stemma del paese ma con un solo leone: forse è stato realizzato prima che due comunità si fondessero in un unico borgo? Di fronte, la chiesa parrocchiale prende il nome di Santa Maria della pace proprio per celebrare l’unione dei bellicosi “vici” che formarono una comunità unita. Quindi tre dettagli che ci sussurrano tre parole: terremoto, acqua ed unità. Forse un messaggio anche per i Fontecchiani di oggi? Proprio da questa unione medioevale, per fini difensivi, nasce, infatti, il paese attuale, quassù, fra la fonte e lo sperone di roccia che domina la strada di fondovalle. Strada che vi saliva attraverso quella che ancora oggi si chiama “Via dell’Aquila” e che passa sotto le mura imponenti del seicentesco Palazzo Corvi che quasi le sbarra il passo.

Era la cosiddetta “Via degli Abruzzi” che collegava nel Medioevo e nel Rinascimento, Firenze con Napoli. Entriamo nel paese murato da porta Castello. La strada che saliamo è in curva così da non consentire agli assalitori, che avessero sfondato la prima difesa, di vedere il foro della cannoniera ad altezza d’uomo, aperto nel ‘400 ai piedi della più antica torre medioevale, che difendeva la cinta interna delle mura. Sulla torre, una bell’orologio del ‘400 (o forse del ‘600) a quadrante Italiano (sei ore invece di dodici ed una sola lancetta), uno dei più antichi, pare, ancora in funzione nel nostro Paese. La sera, l’orologio – se qualcuno ha il buon cuore di ricaricarlo – batte 50 rintocchi a ricordare i giorni di assedio che Fontecchio ha patito ad opera delle truppe del rivoltoso Quinzi nel Seicento, durante i moti antispagnoli di Masaniello: dagli spalti del Palazzo di famiglia, la baronessa Corvi, dice una leggenda, fece fuoco uccidendo il comandante degli assedianti che tolsero così l’assedio. Va da sé che ben poco di questa leggenda ha riscontro nei fatti storici. Forse, infatti, i 50 rintocchi ricordavano un altro assedio che il paese, ci racconta il cronista Angelo Fonticulano,ha subito prima, nel Quattrocento da parte di Braccio da Montone, in guerra per la conquista dell’Aquila. Anche in quel caso, il paese ha resistito ed il tempo perso per l’assedio, ha consentito l’arrivo di rinforzi al comando di Rosso Guelfaglione – pure lui di origine locale – in soccorso dell’Aquila. Percorriamo Via Pico Fonticulano – altro illustre concittadino, cartografo, architetto e geometra del ‘500 – per notare sui muri le scritte che ci parlano di storia recente – W la classe 1914 – e più su, in piazza San Nicola, il faccione sinistro di Mussolini.

Qua e là, le teste delle catene di ferro che spuntano dai muri e gli archetti che scavalcano i vicoli e rafforzano gli angoli delle case, ci parlano di sequenze di terremoti del ‘700, ‘800, ‘900. Fra le case vediamo strettissime “rue” che fungevano da scolo ma anche da “giunto” antisismico. Sulla piazzetta, al centro del nucleo più antico ed ellittico del borgo fortificato, si affacciano i palazzi De Marchis e Muzi e più sotto, fuori dalla mura più antiche, si raggiunge il retro di palazzo Corvi, col suo grande “callaro” di rame per cuocere il mosto. Nella piazzetta, la chiesina di San Nicola, caduta negli anni ’60 e poi trasformata in piazzetta, aveva archi trecenteschi le cui pietre, ora, sono andate a far parte della pavimentazione attorno alla fontana in piazza. Un’iscrizione romana capovolta, murata in un altare, ci dice che qualcosa di romano (un’acropoli?) ci fosse pure quassù. Il campaniletto a vela è una struttura fragile verso i terremoti e quindi è certamente successivo al grande sisma del 1703, forse una ricostruzione. Scendiamo per le stradine tortuose che erano tali, pare, per impedire il tiro delle frecce. A via delle Rondini (un nome, dicono, dovuto alla “ronda” che percorreva le mura) ci raccontano del bandito Barbanera che qui aveva fatto la sua zecca clandestina di Marenghi che venivano nascosti dentro un portone cavo. Proseguiamo. In tutto il centro storico troviamo le “case torre” che si sviluppano in verticale ed avevano le stalle e la cantina nei piani bassi e le abitazioni ai piani superiori. In molte case si distinguono chiaramente portali più ricchi per l’accesso alle abitazioni ed archi o architravi semplici e robusti, per il locali di servizio. I muri sono talvolta intonacati, più spesso lasciano vedere in superfice la testa delle pietre irregolari dei muri. Pietre cavate localmente sotto le case stesse (…così che sono nate le cantine) mentre la pietra “gentile” delle cornici delle finestre e dei portali era portata da più lontano. Su diversi portali, a proteggere chi entrava, è scolpito il monogramma di San Bernardino IHS o i simboli della professione del proprietario. Scendiamo verso la parte bassa del paese che, un tempo, pur dentro le mura, ospitava orti e cantine e poco alla volta si è riempita di edifici che hanno finito per inglobare la piccola fortezza del Cornone con la sua torre di avvistamento a picco sulla rupe. Sulla architrave della torretta, la data 1624 e la scritta gotica “bandit”. Raccontano che sia stata usata come prigione del paese. Un cortiletto fra due archi era forse il luogo del cambio della guardia. La cinquecentesca porta da Piedi – una delle sette che s‘incontravano – chiude il paese in basso e consente di uscire verso valle. Classico lo stratagemma difensivo: la strada sale avendo le mura sulla destra in modo che, chi avesse assalito la porta, era costretto a proteggersi dai lanci dei difensori, tenendo lo scudo con la destra e non potendo così maneggiare la spada. Continuiamo. Anche l’antichità latina ci regala qui un personaggio, Caio Fonticulano, leggendario fondatore del paese, cui, dicono i vecchi, si deve il nome di via della “Caia”, che stiamo percorrendo, anche se è ben più probabile che il termine significasse semplicemente “strada” o magari fosse connesso alla produzione delle “caie”, i cestoni da mettere a soma degli asini.

Usciamo dalla gotica porta dell’Orso che ci porta ai piedi del baronale palazzo Corvi. Sotto di noi, la conceria con i suoi grandi finestroni per asciugare le pelli e un complesso sistema di cisterne, vasche e canalette per lavorarle. Una curiosità: se alziamo lo sguardo verso il palazzo vediamo un “elegante” toilette d’epoca: due aperture – una grande ed una piccola – fra due alti archi, consentivano ai baroni – grandi e piccoli – di lasciar cadere le “spregiate crete” dentro una concimaia. Un portone al piano terra del palazzo mostra ancora il buco prodotto da un pezzo del ponte della strada provinciale fatto saltare dai Tedeschi in ritirata, nell’ultima guerra. Pare che molti tetti ed edifici ne siano stati danneggiati. Abbiamo fatto il giro completo, torniamo in piazza.

Il paesaggio
Il territorio che circonda Fontecchio è interessato dal progressivo abbandono dei campi coltivati e dall’avanzare dell’incolto e poi del bosco. Anche le zone forestali tradizionali, fino a pochi anni fa intensamente sfruttate per la legna da ardere, sono, oggi, prevalentemente abbandonate con un progressivo accumulo di ramaglia secca e piante morte. Resistono piccole superfici coltivate sul fondovalle e sugli altipiani anche se ormai la macchia sta conquistando anche queste aree più favorevoli. Di conseguenza tutta la rete di sentieri che collegava, un tempo, le diverse contrade di campagna con Fontecchio e con San Pio si sta perdendo nonostante che, negli ultimi anni, il numero di turisti che arriva in paese per camminare lungo i sentieri, sia in costante aumento.

Fontecchio (Aq), la fontana storica

L’espansione del bosco e della macchia ha fatto diventare molto comune l’incontro con la fauna selvatica – cervi, caprioli, cinghiali, istrici – che, se da un lato attraggono i turisti, dall’altro provocano forti danni all’agricoltura. Sola forma di coltivazione in espansione è quella delle tartufaie che richiedono però forti investimenti in denaro e tempo lavoro e che stanno connotando il nostro territorio – un tempo povero di siepi e di delimitazioni fra le diverse proprietà – con lunghi sistemi di alte recinzioni. Anche i pascoli, nelle aree montane, sono ormai prevalentemente abbandonati e sono “sotto attacco” da parte dei cespugli e del bosco con perdita di ambienti produttivi e naturali di grande pregio. Così pure, l’insediamento montano delle Pagliare – che resta un luogo fondamentale per gli affetti e per l’identità degli abitanti – ha perso completamente il suo ruolo di insediamento agricolo e sta progressivamente trasformandosi in luogo di svago e di turismo. Di fronte al crollo della redditività agricola, si è deciso, in un caso, di utilizzare i terreni per realizzare serre con tetto fotovoltaico che, se da un lato consentono di recuperare il reddito perduto, dall’altro hanno un notevole impatto sul paesaggio. Del resto il piano paesistico della Regione non ha consentito di realizzare tali impianti in altri luoghi meno visibili. Un’altra area un tempo intensamente vissuta e sfruttata ed oggi in progressivo abbandono è quella del fiume Aterno e dei suoi mulini che vede oggi un progressivo inselvatichimento delle sue sponde nonostante un pur significativo intervento di recupero presso il mulino ed il “ponte le pret’ ”. Una perdita sentita da molti abitanti è, infatti, proprio quella del rapporto col fiume che per l’abbandono, l’inquinamento degli anni passati e la riduzione della portata dell’acqua, è stato progressivamente messo da parte; negli ultimi anni, però, la qualità delle acque e la portata vanno costantemente migliorando grazie ai nuovi depuratori ma anche a causa della contrazione dei prelievi per irrigazione a monte ed al declino del sistema industriale dell’Aquila.

Altri elementi del paesaggio rurale che si stanno perdendo sono i terrazzamenti con i muri a secco e le cosiddette “macerine”, cumuli di pietre derivate dallo spietramento dei campi che, non di rado, ospitano al loro interno piccoli rifugi con volte di pietra. Sempre legati al paesaggio rurale tradizionale sono i tanti alberi da frutto – in particolare meli, ciliegi, noci e mandorli – ancora così diffusi per le campagne – che caratterizzano il paesaggio con le loro fioriture primaverili e le loro chiome. Qua e là si trovano anche alberi grandi o addirittura monumentali di specie di bosco come le roverelle e gli aceri che punteggiano le campagne o si dispongono in filari lungo le strade ed i fossi. L’asta del fiume, infine, è accompagnata dalla striscia verde-argento dei salici – anche di grandi dimensioni – e dei pioppi che nessuno, purtroppo si prende oggi la briga di piantare, potare e tagliare quando muoiono e si abbattono su corso d’acqua. Il colpo d’occhio sulla valle, il fiume, i vicini rilievi e gli altipiani è di un territorio sempre più selvatico, certamente affascinante e grandioso ma dove la presenza umana è sempre più ridotta ai centri abitati ed alle strade asfaltate mentre l’agricoltura si ritira progressivamente di anno in anno.

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Informazioni su Marco Maccaroni 993 articoli
Classe 1956, innamorato di questa terra dura ma leale delle sue innevate montagne del suo verde mare sabbioso dei suoi sapori forti ma autentici, autore, nel 2014, del sito web Abruzzo Vivo

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