L’eremo di San Venanzio è situato nell’omonima valle in un ambiente naturale non ancora guastato –per fortuna- da pesanti interventi dell’uomo. Quando si parla di eremi, che per loro natura sono posti sempre in zone particolarmente amene e solitarie, non si può fare a meno di descrivere il paesaggio in cui si inseriscono, poiché ne rappresenta un’insostituibile cornice. Prima di sboccare nell’ampia Valle Peligna per poi insinuarsi nuovamente, il fiume Aterno attraversa uno dei tratti più suggestivi del suo percorso, che s’inizia immediatamente dopo Molina: è la Valle di San Venanzio che il fiume ha scavato tra i monti Urano e Mentino. L’amenità del luogo è dovuta soprattutto al suo aspetto selvaggio che è accresciuto dalla foltissima vegetazione e dalla conformazione delle pareti rocciose cadenti a strapiombo sul fiume spumeggiante tra le rocce e gli anfratti della gola. Per la sua posizione estremamente isolata, il luogo sfuggì all’attenzione dei visitatori ottocenteschi, molto sensibili alla natura selvaggia della regione che divenne un luogo comune non ancora sfatato. Tuttavia, una prima descrizione della Valle di San Venanzio risale al 1688, anno in cui i Padri Bollandisti pubblicarono un’appendice alla vita del Santo. La più antica descrizione della valle e dell’eremo di San Venanzio che si conosca riportava le seguenti parole: a mezzo miglio dalla città di Corfinio si trova un’amena valle circondata da colli, verso la quale si snoda un mirabile acquedotto sotterraneo, scavato nella roccia per la lunghezza di tre miglia e tanto grande da consentire il passaggio di una persona eretta. In esso scorre un corso d’acqua che irriga tutta la valle, che alimenta un bellissimo anche se piccolo boschetto e che, alla fine della valle, s’immerge nel gran fiume Aterno, oggi chiamato Pescara. Su questo fiume, ai piedi del monte, si trova uno sperone roccioso: su questa roccia sorge la chiesa. Essa è dedicata a Dio, alla Madre di Dio e a San Venanzio Martire, protettore del luogo. Agli inizi del ‘900 visitò il santuario Benedetto Croce, che in quegli anni soggiornava spesso a Raiano presso una cugina; il filosofo riportò la sua impressione in questo efficace schizzo: <<più in là, incassato fra le montagne, come in una spaccatura, il romitorio pende sopra una roccia rotonda, giallastra, che pare un gran blocco di oro. Per tutta la strada, da Raiano a San Venanzio, rumorio di acque, ruscelletti che scendono giuso all’Aterno. In effetti, l’eremo sorge su un sistema di archi che impostano sulla viva roccia nel punto in cui la Gola si restringe maggiormente e dove il fiume forma una piccola cascata. Al visitatore viene spontaneo chiedersi come mai il santuario sia stato costruito al di sopra del fiume. La risposta la fornisce il ricordato brano dei Bollandisti: “Da un’altra parte della chiesa si scende per mezzo di una scala a più gradini in una spelonca presso il fiume, ove San Venanzio faceva penitenza e dormiva. In questo posto è dato vedere mirabilmente scavata nella pietra la forma completa di un corpo umano con ben distinte le forme del capo, delle braccia, delle ginocchia e delle alte membra, come se le avesse fatte un esperto scultore“
Sempre in questo luogo c’è un piccolo altare con una croce di legno antichissima, dinanzi alla quale si crede che fosse solito pregare San Venanzio. Tutta la zona era dunque indicata dalla tradizione come il luogo in cui l’anacoreta aveva lasciato le orme della sua santità, in cui aveva operato miracoli e prodigi. L’edificio, come ci appare oggi, è a pianta rettangolare coperta con volta a botte; ha due altari laterali in prossimità di quello maggiore che è addossato ad una parete divisoria, dietro la quale si trova la vecchia abside con resti di affreschi cinquecenteschi molto deteriorati, rappresentanti gli Evangelisti e restaurati nel 2006. Sul lato orientale si svolge un corridoio su cui si aprono alcune cellette eremitiche, ormai da tempo abbandonate. Alla fine del corridoio è il passaggio per la loggia sospesa sul fiume, nonché la gradinata che scende alla cappella delle Sette Marie. Tutto questo organismo, chiesa e celle, poggia sulla sponda destra dell’Aterno insistendo su una compatta massa rocciosa. La parte più caratteristica invece, quella che unisce le due pareti della gola, imposta su un sistema di archi a diverso livello, sotto i quali scorre il fiume. La precedente costruzione, di cui sono rimasti i segni anche dopo gli interventi della fine del ‘600, risale ad un periodo a cavallo tra il XV e il XVI secolo, sia perché gli affreschi che restano sono databili agli inizi del ‘500, sia perché il Compianto in terracotta fu eseguito nel 1510. Ma la chiesa odierna, perlomeno quanto a spazio interno, non ha più la forma della precedente, poiché subì evidenti trasformazioni. Ed è possibile indicare con una certa sicurezza l’epoca esatta degli interventi allo scadere del penultimo decennio del secolo XVII.
A proposito dei tre altari interni bisogna aggiungere che quelli laterali contengono le statue di S. Giovanni Battista e di S. Pietro Celestino mentre le statue di S. Antonio Abate e di S. Porfirio erano sistemate lateralmente all’altare maggiore e furono trafugate nel 1791. Prima del furto sacrilego le pareti del santuario erano ricoperte di ex voto , tra i quali alcuni del ‘600 e in discreto stato di conservazione agli inizi del ‘900, secondo la testimonianza del Croce. Sembra che l’ambiente rifatto alla fine del ‘600 non fosse adorno da alcuna pittura; mentre le decorazioni moderne sono dovute ai pittori Savino Del Boccio e Antonio Vaccaro, che le eseguirono immediatamente dopo l’ultimo conflitto mondiale in segno di ringraziamento al Protettore, come si desume dalla scritta commemorativa. La più bella opera d’arte che l’eremo conserva è un Compianto cinquecentesco composto da diciassette figure in terracotta policroma e un gruppetto di cinque angeli che pende dal soffitto. La scena è dominata dalla figura del Cristo in primo piano, adagiata in un sudario a forma di navicella. A sinistra e a destra si trovano figure maschili e femminili, vestite di lunghe tuniche e strani copricapi. Strettamente legati al santuario, anche se da esso materialmente lontani, sono i luoghi che la pietà popolare indica come segni dei miracoli operati dal Santo. Anzitutto le tre edicole lungo la strada, in cui si scorgono l’impronta del cranio, del volto e del piede impresse nella viva pietra; al di sopra dell’eremo, invece, su una parete a picco c’è una specie di piccola terrazza, la Crocetta , di difficilissimo acceso, ove il Santo si recava per pregare e fare penitenza ed ove si recano, per devozione, le persone più spericolate il giorno della sua festa. Altra impronta, su cui si stendono i pellegrini per guarire dai vari acciacchi, è quella già ricordata del corpo del Santo, prodotta durante il sonno sulla nuda pietra; ad essa si scende per mezzo di una scala santa tagliata nella viva roccia davanti l’altare maggiore. Dirimpetto a tale impronta è il sedile di S. Rina che ha il potere di guarire dal mal di reni.
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