Tartufi
Una recente indagine svolta dall’Agenzia Regionale di Sviluppo Agricolo ha censito le tartufaie naturali presenti sul territorio abruzzese. I risultati sono sorprendenti: 219 i siti produttivi di Tuber magnatum Pico; 175 quelli di Tuber melanosporum (il nero pregiato); 381 quelli di Tuber aestivum (lo ‘scorzone) e uncinatum e, infine, 109 quelli di Tuber borchii (il bianchetto). Per non parlare delle tartufaie coltivate, un’attività in espansione grazie anche agli incentivi regionali e alla migliorata formazione dei tartuficoltori. L’Abruzzo, insomma, è una delle regioni più ricche di aree tartufigene (una stima parziale si aggira intorno ai 500 quintali), la cui produzione viene in gran parte commercializzata in altre regioni ed aree che hanno meglio saputo creare un ‘marchio’ intorno al tartufo. Ma qualcosa si sta muovendo. Stanno nascendo associazioni di tartuficoltori e cercatori volti alla salvaguardia del territorio (una delle piaghe è la raccolta precoce, abusiva e indiscriminata che distrugge e rende improduttive le tartufaie) e alla valorizzazione del prodotto nei confini regionali, garantendo regole certe, qualità garantita e prezzi competitivi. Già oggi i piatti stagionali a base di tartufo (nella ristorazione, negli agriturismi) sono una delle tipicità più apprezzate. Certamente, in futuro, questa impagabile ricchezza del territorio troverà un rilancio ed una ulteriore valorizzazione.
Torrone tenero aquilano
Ulisse Nurzia passava nottate intere nel suo piccolo laboratorio dolciario, sperimentando e inventando consistenze, gusti e sapori nuovi, moderni. Nacque così il “Torrone tenero al cioccolato” che si rivelò come una vera rivoluzione nel campo dei torroni. Nobilitò il prodotto, simile al torrone bianco tipo Cremona, aggiungendo il cacao a ingredienti semplici come le nocciole o le mandorle, il miele e il bianco d’uovo per l’ostia di copertura. Un torrone moderno ed equilibrato in tutte le sue caratteristiche organolettiche: l’amaro del cacao bilanciato dal miele e dal gusto appena amarognolo e gustoso delle nocciole tostate. Un vero successo destinato a durare nel tempo: un pugno di aziende, piccole e grandi e ognuna con la sua personale ricetta, tengono viva questa secolare tradizione.
Trebbiano d’Abruzzo
È l’”altra” uva abruzzese d’impatto per fama e quantità prodotte, il brand bianco della regione. Il vino ottenutone (85% di apporto minimo) in aree vocate delle quattro province è a Doc dal 1972. Detta anche Bombino (nome antico, oggetto di varie ipotesi e leggende), trasfonde il proprio Dna in vini dalle consolidate stimmate di freschezza e nettezza, piacevoli e gradevolmente fruttati. Ma ha anche adattabilità straordinaria a ‘terroir’ e metodi d’allevamento in vigna. Anch’essa sa dunque salire da aree premarine fino a quota 500-600 metri, mentre rigetta i fondovalle umidi (peraltro esclusi dalle regole della Doc). Vino trasversale e amichevole per definizione, sa però sbalordire nelle sue espressioni più felici ed elitarie: alcuni Trebbiano abruzzesi (e il numero cresce, in linea con il trend della qualità media) sono capaci infatti di complessità e longevità tali da spiazzare e conquistare anche i più accorti conoscitori, e sfidare prodotti dai celebrati quarti di nobiltà enoica.
Ventricina del vastese
Nella zona collinare e pedemontana denominata del medio ed alto vastese, la maialatura ha assunto, nel corso dei secoli, una tradizione a spiccato carattere locale. Questa è la patria di un insaccato davvero particolare: di lunga stagionatura e generosa pezzatura, composto con le parti più nobili del maiale, rigorosamente tagliate in punta di coltello. Si presenta di grosso calibro e di grana grande, con la caratteristica forma ovoidale, l’interno di colore rosso arancio (grazie all’apporto nell’impasto di peperone rosso secco tritato dolce e piccante, con semi di finocchio selvatico e un pochino di pepe) ed un sapore soavemente piccante. I tagli di carne impiegati sono per il 70% di tagli magri (di cui almeno 80% prosciutto e lombo) e per il 30% pancetta e grasso prosciutto. Dopo l’insaccamento nel budello, segue il periodo di stagionatura, non inferiore a cento giorni. È stato il primo tra i Presidi Slow Food abruzzesi.
Ventricina teramana
Si tratta di un delizioso salume fresco da spalmare (in questo parente del territorialmente prossimo ciaùscolo ascolano), prodotto nel teramano con carne e grasso di suino macinati molto finemente, con l’aggiunta di sale, aglio, pepe bianco e nero macinati, peperoncino dolce e piccante, pasta di peperoni, semi di finocchio, rosmarino e buccia d’arancia. Viene conservato nel budello di maiale ma si può anche trovare in barattoli. La morte sua? Semplicemente spalmata su una fetta di pane abbrustolito. Virtù (Itinerario 3) Le Virtù sono il piatto principe della cucina teramana. Piatto che nasce dalla necessità di consumare, con l’inizio della primavera, tutto ciò che resta nella dispensa della famiglia contadina, previdente e risparmiosa per necessità durante la brutta stagione. Una necessità che diventa virtù e festa, condivisione e rito collettivo. Un rito che si festeggia il primo maggio nelle case, nei ristoranti e nelle piazze di Teramo e di tutti i centri vicini. Simbolicamente diventa una festa della primavera e della voglia di cancellare le durezze e i sacrifici dell’inverno. Non è il caso, in poco spazio, nemmeno di accennare la ricetta (e le infinite varianti). Basti dire che le Virtù sono una sorta di minestrone con ortaggi, verdure, legumi, erbe ed erbette aromatiche, carni e paste di vario tipo; che quasi tutti ingredienti hanno tempi di cottura i più diversi e vanno preparati a parte; che l’impresa può durare anche tre giorni. Solo alla fine si procede alla cottura, sempre separata, dei vari tipi di pasta e all’amalgama finale. E in un solo boccone si brucia il risparmio di un anno e la fatica di più giorni. Anche per questo è un piatto di rara bontà.
Zafferano dell’Aquila Dop
“Zafferano dell’Aquila”. Così si chiama, da più di seicento anni, la spezia-droga che si ottiene dalla raccolta e dall’essiccazione degli stimmi (o pistilli) del fiore del “Crocus Sativus” nell’Abruzzo aquilano ed in particolare nella piana di Navelli dove lo zafferano ha trovato la sua ideale dimora. In Agosto si trapiantano i bulbi nelle aiuole preparate nei campi. A metà Ottobre inizia la fioritura che dura circa venti giorni, fino all’inizio di Novembre. I fiori vengono raccolti la mattina presto, prima che il sole li apra. Poi si procede alla sfioritura, cioè all’asportazione degli stimmi che vengono messi ad asciugare mediante tostatura. Con la tostatura gli stimmi perdono i 5/6 del loro peso: con 600 grammi di stimmi freschi si ottengono appena 100 grammi di stimmi secchi. Nel vasetto da un grammo quindi, c’è il prodotto della raccolta di duecento fiori. C’è tanto lavoro, prima, dopo e durante la raccolta, ma ne vale davvero la pena perché parliamo di una qualità eccezionale, di profumi e sapori unici. I fili di zafferano vanno fatti rinvenire in un poco di acqua tiepida o brodo prima del loro utilizzo in cucina, per il tradizionale risotto o per le tipiche ricette abruzzesi: primi piatti con l’agnello o i gamberi di fiume; con le carni ovine o da cortile; nei dolci o ad impreziosire formaggi e latticini.
Credits: Abruzzo Promozione Turismo
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.