Maccheroni alla chitarra
Pasta simbolo della regione, che si ottiene adagiando la sfoglia – consistente ed elastica insieme- sull’apposito attrezzo tradizionale (un telaietto di legno attraversato nel senso della lunghezza da corde metalliche a guisa di chitarra) e passando sopra, con una leggera pressione e sempre nello stesso verso, il mattarello. Sotto la chitarra scendono questi ‘spaghetti’ a sezione quadrata che tanto bene sposano ragù d’agnello (preferibilmente in bianco con erbe di montagna), condimenti con funghi o tartufo, ma anche frutti di mare o una semplice salsa con pomodoro e basilico. Ci vuole pazienza e una certa abilità manuale, ma un primo piatto a base di spaghetti alla chitarra non può davvero mancare in un menu tipico abruzzese.
Mazzarelle teramane
Piccolo capolavoro della grande cucina teramana. Occorrono belle foglie di lattuga, budellini e coratella di agnello, cipolla, maggiorana, prezzemolo, aglio (possibilmente fresco) olio extravergine, aceto di vino, sale e pepe.. Si taglia la coratellina, si lava per bene, si sala leggermente e si lascia anch’essa a sgocciolare. Su ogni foglia di lattuga si adagia un poco di coratella, qualche fettina di cipolla e di aglio e il prezzemolo. Si stringono ben bene le foglie intorno al ripieno legando ciascuna “mazzarella” avvolgendola con i budellini accuratamente lavati con acqua e aceto. La cottura prosegue in forno, a calore medio, girando spesso e bagnando –se necessariocon altra acqua ed aceto o in padella adeguata. Si servono ben calde, come delizioso antipasto o secondo piatto.
Montepulciano d’Abruzzo
È “il” vitigno e “il” vino abruzzese per antonomasia. È la prima Doc ottenuta in regione: dal 1968 premia l’uva regina di queste terre, protegge e certifica vini prodotti (nonché imbottigliati e affinati) in aree vocate nelle quattro province, da pendici affacciate sui 130 chilometri di costa fino all’alta collina interna, con vigneti ubicati fino a 500-600 metri d’altezza. Bandiera del territorio, identitario ed eloquente nella sua forte impronta qualitativa (colore profondo e vivo dovuto alla naturale ricchezza di preziose sostanze polifenoliche, garanti di solida capacità evolutiva; profumi densi con tipiche note di ciliegia, base, con affinamento e maturazione, per un bouquet variegato e complesso) il Montepulciano offre, pur nella coerenza garantita dal vitigno, una gamma composita di sfumature, dalla morbida cremosità dei vini di zone più calde e generose all’eleganza setosa di quelli d’altura. Ma il suo marchio è comunque quello di una beva di succosa soddisfazione. La ricerca sulla specificità dei ‘terroir’ porta alla valorizzazione delle sottozone di produzione, come le recenti: Casauria, Terre dei Vestini, Alto Tirino.
Montepulciano d’Abruzzo cerasuolo
È l’altra faccia (e l’altro colore) del Montepulciano, ed è protetto, con regole specifiche, dalla stessa Doc. È la tradizionale versione in rosa, ottenuta dalla stessa uva grazie a un contatto tra mosto e bucce assai più breve e delicato. Vino, alle origini, da autoconsumo (anticipato, veloce rispetto al rosso) per intuibili motivazioni socioeconomiche, in virtù della sua piacevolezza, di profumi, se centrati, davvero deliziosi, e di una beva “ponte”, capace di far da compagna alla cucina più profumata di terra come a quella di mare più saporosa, è divenuto la “terza gamba” dell’Abruzzo da vino. E vive oggi, grazie anche all’opera di produttori accorti e rigorosi, e all’indiscutibile crescita di cultura e di accortezza tecnica nelle cantine, il momento di massimo successo della sua storia.
Montonico
Verrebbe da dire, giocandoci un po’ su, che il bianco Montonico somiglia all’immagine retorica a lungo associata agli abruzzesi. È uva di buccia dura (enoicamente un vantaggio: protegge da muffe e malanni, e assicura apporti interessanti, se ben gestita); tanto che a lungo, proprio per la sua resistenza a viaggi e strapazzi, è spesso ‘emigrata’, spedita fuori d’Italia e consumata anche come uva da tavola. Ama terreni avari e climi freschi. Ed è tardiva, richiedendo dunque coraggio (e sfide al meteo) a chi la coltiva. Ma ripaga con un vino speciale: bella acidità, nitido finale amarognolo e, in mezzo, note di frutta e spezie delicate. Il Montonico è vanto per ora solo di aree ristrette del Teramano: Bisenti e Poggio delle Rose. Da qui, grazie a pionieri coraggiosi, è partito il rilancio, ancora definito dalle esigue quantità prodotte, ma già oggetto di motivato interesse da parte degli ‘esploratori’ e intenditori più accorti.
Mozzarelle Treccia, bocconcini, ciliegine, nodini…
qualunque sia la forma, il fior di latte –il più fresco e diffuso tra i formaggi a pasta filata- è una vera prelibatezza abruzzese. Nelle fasce montane e pedemontane, la zootecnia è da sempre stata l’attività agricola più importante e la produzione di mozzarelle ha zone di particolare pregio, per la qualità dei pascoli (quindi del latte) e la artigianale tradizione casearia. Particolarmente apprezzate le mozzarelle dell’aquilano e delle zone ai confini con il Molise, a partire da Rivisondoli. La scamorza appassita (che trovate spesso abbinata al prosciutto come pietanza) è identica nella preparazione al fior di latte ma con minor percentuale d’acqua e la caratteristica crosta giallognola proprio perché lasciata appassire. Legate con il caratteristico spago, sono di sapore più intenso e si servono cotte lentamente sulla brace o in forno.
Miele
Il disciplinare da rispettare per ottenere da parte dei produttori la denominazione d’origine protetta “Miele d’Abruzzo” è piuttosto rigida. Qui basti sapere che sia gli alveari che tutte le operazioni di lavorazione, confezione e commercializzazione devono avvenire all’interno del territorio regionale. Seguono molte altre regole a garanzia della naturalità e tipicità del prodotto, compreso l’elenco delle tipologie di miele ammesse alla denominazione, che è piuttosto ristretto: millefiori; millefiori di montagna (apiari ad oltre 800 metri s.l.m.); di sulla; di girasole; di santoreggia; di acacia; di melata e di lupinella (quest’ultimo una vera rarità abruzzese). Otto tipi di miele in tutto, ma con una gamma di profumi e sapori vastissima, ognuna legata oltre che alla tipologia, al territorio e al produttore.
Mortadelle di Campotosto
Campotosto (e le sue frazioni Mascioni e Poggio Cancelli) sulle sponde del lago artificiale più grande d’Europa e nel cuore del Parco del Gran Sasso e Monti della Laga, sono i luoghi dove ‘si fanno’ e di cui il Presidio Slow Food garantisce qualità e autenticità. Per prima cosa bisogna saper scegliere il grasso per il lardello centrale che è la caratteristica principe di questo insaccato di carne magra di maiale, ovoidale e della misura della mano di chi le fa. Le mortadelle si legano a due a due (da cui il colorito appellativo di ‘cojoni di mulo’) e si mettono a cavallo ad asciugare e a prendere un’ombra di fumo. Dopo tre mesi molti dicono che sono pronte ma dopo un anno, che tanto non si seccano (il lardello serve anche a quello) sono il massimo.
Moscatello di Castiglione a Casauria
Nell’alta Val Pescara, in “tenimento di Castiglione a Casauria”, –zona interna collinare a 350 metri- è tradizione ultracentenaria coltivare e vinificare il locale moscatello. È uno dei più antichi vitigni autoctoni abruzzesi da cui si ricava, come si direbbe oggi, un delizioso vino da dessert o da meditazione. Gran parte della piccola produzione è destinata all’autoconsumo in occasione di feste familiari (la nascita, lo sposalizio) e pubbliche: la festa del Santo Patrono del 3 Febbraio e, in tempi più recenti, la locale sagra gastronomica. È un vino dolce naturale, equilibrato e piacevolissimo, da scoprire facendo una piccola gita in quel di Castiglione a Casauria e approfittandone per visitare la splendida abbazia di San Clemente a Casauria, nei pressi della vicina Torre dei Passeri.
Mosto cotto
Veniva preparato dai contadini quando nasceva il figlio maschio, per offrirlo nel giorno del suo matrimonio. Tecnicamente è un mosto di uve Montepulciano d’Abruzzo concentrato per bollitura nel caldaio di rame. Quando si aggiunge al mosto concentrato altro mosto fresco non fermentato (rifermenteranno insieme) si ha una versione più “bevibile”, il vino cotto, utilizzato come vino da dessert. Il mosto cotto vero e proprio è quello che si fa lasciando sobbollire il mosto fresco a fuoco moderato fino ad una riduzione della massa che, secondo gusti e utilizzo, può andare da un terzo ad un ottavo del volume iniziale. Viene utilizzato nella preparazione di dolci tradizionali, per conserve o come condimento in molte preparazioni di pietanze a base di carne.
Olio extravergine d’oliva
La cultura mediterranea dell’olivo trova in Abruzzo una delle aree italiane più importanti, e disegna da secoli il paesaggio di interi territori tra il mare e la montagna. Una storia antica, quella dell’olivicoltura in Abruzzo, testimoniata dal recente recupero di un grande olivo nell’orto dell’abbazia di San Giovanni in Venere a Fossacesia, in provincia di Chieti, della veneranda età di oltre 1700 anni. L’Abruzzo vanta più di 50.000 ettari di superficie “olivetata”, insieme ai vigneti, la cartolina più rappresentativa del territorio collinare. Nella provincia di Pescara -prevalentemente nel cosiddetto “triangolo d’oro” di Loreto Aprutino, Pianella e Moscufo e nella Val Pescara- la DOP Aprutino-Pescarese,la prima a essere riconosciuta in Europa nel 1996. In provincia di Chieti, dove si concentra circa il 65% della produzione regionale, c’è invece la DOP Colline Teatine con le sottozone Frentana e Vastese. Ultima nata è la DOP Pretuziano Colline Teramane con le sue varietà locali Tortiglione e Castiglionese che vengono coltivate lungo le colline litoranee e per circa 25-30 km verso l’interno quasi fin sotto il Gran Sasso.
Parrozzo
Tra le specialità dolciarie una menzione particolare merita il Parrozzo, moderna versione dell’antico ‘pane rozzo’ preparato dai contadini con il granturco. La vocazione dolciaria di Luigi D’Amico e l’ispirazione di Gabriele D’Annunzio (che creò il nome) sono all’origine di questo dolce prelibato in cui il giallo del granturco è riprodotto dalle uova dell’impasto, lo scuro della cottura in forno a legna è evocata dalla copertura di cioccolato e la farina di mandorle pregiate dà quel tocco di dolceamaro che lo rende inimitabile.
Pasta secca: la qualità abruzzese nel mondo
Un rebus, com’è ovvio, voler attribuire a qualcuno in particolare la paternità del primo impasto di grano polverizzato ad acqua, e poi di aver pensato ad essiccarlo per necessità di conservazione e comodità di trasporto. La pasta secca abruzzese, a partire dalla ‘culla’ di Fara San Martino, a ridosso della Majella, è leader nel mondo per qualità e diffusione. L’acqua, l’aria, la sapienza della tradizione, le trafile in bronzo, l’essiccazione lenta e a basse temperature, i processi di lavorazione, il controllo delle materie prime (semole di grano di prima qualità innanzitutto)… ecco i semplici segreti della pasta abruzzese. Accanto a marchi notissimi, nei negozi abruzzesi potete acquistare prodotti eccellenti di molte piccole e medie aziende semi-artigiane che sono sulla tavola dei gourmet e nei grandi ristoranti di tutto il mondo.
“Pallotte cace e ove”
Le “polpette con le uova e il formaggio” sono un piatto povero e buonissimo della tradizione. Si preparano facendo un impasto con poca mollica di pane, formaggio pecorino poco stagionato sbriciolato o grattugiato grossolanamente e uova sbattute bene: 6- 7 uova ogni 500 grammi di formaggio. Poi un poco di prezzemolo tritato finemente. Le polpette si friggono in olio extravergine (o un buon semi di arachide) a media temperatura. Nel frattempo è pronta la salsa di pomodoro: leggera, con poca cipolletta (preparata in una padella larga) a stufare e i pomodori (magari freschi in stagione o in bottiglia) a scaldarsi dieci minuti. Ora è il momento di scendere le polpette nella salsa ad insaporirsi ed insaporire per altri dieci minuti.
Pecorino (il vino)
È uno dei tanti ‘cugini’ ascritti alla prolifica famiglia dei Trebbiani. Faceva parte da un pezzo del magma ampelografico (vigne miste, con vari vitigni, parenti stretti e non, coesistenti nello stesso appezzamento) che ha caratterizzato a lungo la viticoltura contadina della ‘pancia’ d’Italia e ha messo casa in particolare a cavallo del Tronto, sia sui colli della sponda marchigiana che di quella abruzzese. Proprio in Abruzzo, le sue caratteristiche (media acidità, ma buona struttura; aromi fruttati, più che floreali, orientati tra mela matura e banana, e interessanti nuance speziate) ne hanno fatto uno dei ‘recuperi’ di maggior interesse degli ultimi tempi. Innestato in vigneti dedicati e seguito con cura anche nelle risorte (e rampanti) aree da vino in zona Tirino (oltre che sui colli pre-adriatici), si è rapidamente guadagnato un posto al sole. Ed è oggi una delle novità più seguite del panorama enoico regionale.
Pecorino (il formaggio)
Ogni piccolo produttore ha la sua tecnica e i suoi piccoli segreti, compreso l’utilizzo e la preparazione del caglio, ancora oggi tramandati all’interno dei nuclei familiari. Tante le aree particolarmente vocate, con nomi che sono un vero e proprio marchio di fabbrica e garanzia di naturalità, autenticità e bontà: Atri, Scanno, Pizzoli. Una citazione a parte merita il pecorino di Farindola: formaggio derivato del latte di pecore allevate nel versante orientale del Gran Sasso, a Farindola e in altri comuni limitrofi. Il latte è lavorato a crudo, in forme da 1 a 2 kg, con la particolarità del caglio usato per ottenere il formaggio: si ottiene, infatti, dallo stomaco del suino. Le forme, durante la stagionatura, vengono rivoltate e massaggiate (tradizionalmente dalle donne) e bagnate con olio di oliva extravergine e aceto per prevenire la formazione di muffe e non far seccare eccessivamente il formaggio. È presidio Slow Food. Info: Consorzio di Tutela del Pecorino di Farindola.
Scrippelle ‘mbusse
Ricetta bandiera della gastronomia teramana, riassume in un cerchio teso e sottile di pasta porosa l’altro cerchio, storico e magico, che lega la colta cucina medicea, migrata a Parigi e rimpatriata qui come francese, a quella di Teramo, che ne ha mixato i tratti curtensi con la feconda sapidità delle radici contadine e montane. La scrippellacrespella- crêpe riannoda già nel nome il percorso. Si fa legando dolcemente farina e uova battute (2 cucchiai rasi a uovo), diluendo con acqua, aggiustando di sale, e cuocendo delicatamente dai due lati in padellino (20-25 cm) appena unto (la tradizione dice lardo) un velo fine d’impasto. Elastiche, dorate, le scrippelle riposeranno un po’ mentre si ultima il più classico dei brodi (ala di tacchino, muscolo, manzo, odori). Saranno poi cosparse su una faccia con formaggio a fili, speziate di cannella e arrotolate. Poste nelle scodelle, vanno servite annegate (‘mbusse) nel brodo caldo versatovi su, e rifinite a piacere con altro cacio.
Sise de monache
Dolce simbolo di Guardiagrele: “tre monti” di pan brioche farciti di crema e spolverati (come fosse neve) di finissimo zucchero a velo. Fin qui la nota gastronomica, legata al nome della famiglia Palmerio e ad una seconda pasticceria, intestata alla famiglia Lullo “successore di Filippo Palmerio” come riportato nell’insegna. È però nella sua originalità, nella sua storia, nelle seduzioni, nelle evocazioni il lato più intrigante e fascinoso: materno ed infantile, maliziosamente erotico, rituale e simbolico, pagano e sacro nello stesso tempo. Ma come si mangiano? Il vero, elegante amante delle sise, le affronta in modo infantile, senza remore, e nell’operazione imbianca naso, labbra e mento ed è deliziosamente costretto a leccarsi tutt’ intorno le labbra, i ”baffi”, ripercorrendo gesti infantili, innocenti.
Scapece
Storica ricetta per conservare il pesce, per destinarlo alle zone montane o ai lunghi periodi di magra. L’origine è spagnola: “Escabece” e gli ultimi artigiani vastesi. C’è la razza, il palombo… fritti, asciugati e lasciati raffreddare; l’aceto, il vino bianco, lo zafferano aquilano sono il liquido per la conservazione (e l’esaltazione del sapore) in botti di legno di rovere o recipienti di terracotta smaltata. Squisitissimo cibo, con il fascino delle cose destinate a scomparire per sempre.
Stoccafisso o Baccalà
Da secoli, il merluzzo (Gadus Morhua) è essiccato ai venti del nord o salato. Il pesce lasciato essiccare per la conservazione è conosciuto con il nome di stoccafisso; quello invece salato (sicuramente più comodo e facile da reperire ma spesso di qualità inferiore) prende il nome di baccalà. Il merluzzo conservato non era considerato nel passato uno status symbol gastronomico, roba da gourmet, era un piatto povero e a buon mercato, tanto che, in Abruzzo, era chiamato “la carne dei poveri”. Dalla Val Vibrata al chetino, dall’aquilano all’entroterra pescarese è un fiorire di ricette tradizionali di cui citiamo, per brevità di spazio, solo le più conosciute: baccalà con cipolle (tante) e pomodoro; linguine con pomodoro leggero e baccalà; in umido con l’uvetta e le prugne secche o fritto in pastella (natalizio); tortino di baccalà mantecato; in tortiera al forno con le patate.
Credits: Abruzzo Promozione Turismo
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