C’è un Abruzzo d’oriente, è quello che da Tollo in poi ripiega verso il mare. A Tollo i turchi raggiunsero la più profonda parte d’entroterra nelle incursioni della seconda metà del XVI secolo. In quegli anni le scorrerie lungo l’Adriatico disseminarono il terrore tra gli abitanti sparsi sulle coste, con le finestre vista mare da cui scorsero le sagome minacciose delle galee provenienti dal lontano oriente.
@ di Filiberto Ciaglia – A poco più di cento anni dalla presa di Costantinopoli del 1453, l’impero ottomano nel corso del XVI secolo incrementò la sua espansione nei territori nord africani e nella penisola balcanica, mentre più problematica risultava la spinta ad oriente ostacolata dall’impero safavide iraniano.
Teatro d’attacchi, l’Adriatico fu caratterizzato dalla minaccia di navi turche dalla parte garganica alle coste centro settentrionali, senza calcolare gli assedi sulle rive balcaniche.
Quando in un giorno di fine luglio del 1566 gli abruzzesi scorsero l’orizzonte marino, lo scenario che si presentò fu impressionante: una flotta di oltre cento galee con migliaia di turchi si avvicinava alla costa, guidata da Piali Pascià.
Tuttavia, la forte artiglieria della guarnigione aragonese ebbe la meglio sugli invasori e il comandante della flotta turca non poté far altro che riprendere il mare ed abbandonare Pescara, la sola ad opporsi con successo prima del tracollo delle località costiere abruzzesi che vennero attaccate più a sud, come Ortona, Vasto, San Vito, Francavilla, dove furono catturati centinaia di prigionieri e perpetrati lunghi saccheggi, senza contare gli incendi ai danni degli edifici. Il tentativo fallito d’espugnare il castello di Tollo infine, come accennato, rappresentò l’unica autentica penetrazione interna che spinse l’esercito turco fino ai centri fortificati delle colline teatine. La resistenza di Pescara, unita agli altri episodi della guerra di corsareria adriatica in Abruzzo, lascia attraverso le pochissime fonti a cui attingere la testimonianza importantissima del contatto tra le nostre coste e le navi d’un impero lontano che fu tra i più longevi, complessi e affascinanti nella storia dell’umanità.
C’è un Abruzzo d’oriente, ma non viene percepito
Per le vie della città fortificata di Termoli, sorvegliati dal castello, è più forte il senso d’oriente. L’abbraccio con le coste turche si fa più solido scendendo nelle Puglie, dal bianco delle case di Vieste alla cattedrale di Otranto, con i suoi martiri. Da Termoli in giù, le manifestazioni rievocative e il rapporto con l’oriente rivive in una trasmissione delle vecchie storie, in un vigore degli studi e nei pannelli esplicativi disseminati nei centri, cosa che a parer mio dovrebbe avvenire a Ortona, a Vasto, a San Salvo e così via. Tollo, che tra i centri colpiti dagli attacchi fu il più lontano dal mare, risulta essere paradossalmente il più attento al richiamo del Mediterraneo e dell’incrocio con l’oriente con la celebrazione della Madonna dei Turchi e il suo corteo, la prima domenica di agosto. Qualcosa di simile accade a Villamagna, con la rievocazione del salvataggio dell’abitato dall’attacco turco ad opera di Santa Margherita D’Antiochia, il 13 di luglio.
Parlare di un Abruzzo d’oriente vuol dire affacciarsi verso il mare e percepire, in primo luogo, che quelle che si infrangono sulla riva sono le onde del Mediterraneo, e poi dell’Adriatico.
Vuol dire rivivere i cannoneggiamenti, la presa degli schiavi, il valore del contrattacco dei nostri conterranei nei confronti degli equipaggi nemici, che oltre ai turchi contavano altresì calabresi rinnegati, balcanici dell’impero ottomano, nord africani, tutti soldati di uno degli imperi più longevi e vasti della storia dell’umanità.
Qualche grande storia sopravvive, per fortuna. Come quella di Domenica Catena, una donna di Francavilla rapita dai turchi cui fu concesso il ritorno in patria dal sultano. La sua vicenda fu tramandata nei racconti popolari e messa per iscritto dalla viaggiatrice britannica Anne Macdonnel, che nel suo “In the Abruzzi “(Londra, 1908), descrisse di una leggenda
“secondo la quale una bellissima fanciulla, una certa Domenica Catena, venne offerta al Sultano come uno dei migliori ‘pezzi’ del bottino. La deliziosa ragazza francavillese entrò a far parte dell’harem del Pascià, nell’ambito del quale divenne la favorita ed esercitò un certo ascendente sulle decisioni del Sultano. Lei gli diede anche un figlio, che in seguito divenne Selim II. Dopo ventidue anni Domenica riuscì tuttavia a convincere il suo Signore a farla tornare a Francavilla e, carica di ricchi doni, salpò per la Terra natia. Si dice che lei in seguito entrò in un convento, dove trascorse il resto della sua vita “
Agli inizi del ‘900 a Francavilla ancora si parlava di Domenica Catena, l’unica concittadina che abitò i due mondi del Mediterraneo. Leggendo gli scritti del professor Vito Teti ho compreso quanto il retaggio di questi avvenimenti sia ascrivibile a una più profonda Antropologia del Mediterraneo. E’ evidente che risulti pressoché improponibile la tesi della Catena quale madre del sultano Selim II, ma il suo ritorno dal “Grande Mare” rassomiglia a quello che il professor Teti ne “Il Senso dei luoghi” rievoca per l’abitato antico calabrese di Melito, affacciato sul Mar Ionio. A Melito si dice che il quadro raffigurante la Madonna col Bambino, tra un coro di angeli e una nave tra le onde, arrivò dal mare proprio alla fine del XVI secolo secondo una leggenda locale che narra quanto segue:
“Una giovane donna del luogo viene rapita dai turchi. Durante la lunga e dolorosa schiavitù invoca continuamente il nome della Madonna, fino a che, un giorno, le sue preghiere vengono ascoltate ed esaudite. Nel palazzo del sultano viene preparata una grande spedizione. Sulle navi sono imbarcate merci di ogni tipo, nonché numerose icone provenienti da diverse chiese; vi trovano posto anche molte donne rapite e ormai non più giovani e belle, che vengono offerte come riscatto nelle località depredate. La donna viene sbarcata nei luoghi della sua infanzia, che subito riconosce. Tra le capanne dei pescatori incontra diversi giovani e tra questi suo figlio. In quell’occasione i turchi abbandonano il quadro della Madonna.” (Vito Teti, Il Senso dei Luoghi, p.27, Donzelli, 2004)
Bisogna iniziare a ripensare il nome dei luoghi se il senso che nascondono presenta, una volta riscoperto, una grandezza degli spazi che supera la mera estensione territoriale. L’incrocio con il “Turco”, la paura dell’orizzonte marittimo, l’eco degli incendi, degli approdi delle galee negli antichi porticcioli, le fughe degli abitanti verso l’entroterra e i racconti orali degli sparuti schiavi che tornarono liberi dalla Sublime Porta, collocano la dimensione costiera abruzzese nel quadro della più vasta e plurale antropologia mediterranea, in una convergenza delle tradizioni orali e rituali afferenti al mare che lega a doppio nodo le comunità costiere, e qualche volta interne, d’Abruzzo ai grandi e piccoli porti dell’Italia meridionale ionico-adriatica.
@ di Filiberto Ciaglia @ Foto Giuliano Braca
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