La presente riflessione sul “Patrimonio Intangibile” evidenzia il cambiamento culturale e la necessità di costruzione continua (work in progress) del riconoscimento istituzionale dei beni, sottolineando il ruolo giocato dagli antropologi sia nel monitorare le feste tradizionali/popolari, sia nel suggerire nuovi percorsi alla popolazione e ai visitatori che con le loro azioni e relazioni sostanziano le feste stesse. Oggi il patrimonio culturale si trova ad abitare vari ambiti di appartenenza, tutti ruotanti attorno al concetto di identità culturale; tuttavia, il concetto di “patrimonio culturale” è entrato nel vizioso circolo del marketing e della demagogia politica, che rischiano di insabbiare il suo significato di “necessità” per le popolazioni. In Italia, oggi che il vivere civile è in crisi, oggi che il denaro è assurto a unico parametro della vita comune, oggi che la qualità sociale sembra andare incontro a gravi compromissioni, è urgente ripensare in modo riflessivo il rapporto col passato e con la tradizione: questo perché col passato e con la tradizione che si pongono a metà strada tra “valore sociale” e costruzione delle “patrie culturali”, per cui la nozione di “patrimonio culturale” sfocia inevitabilmente nella nozione di “comunità”- il rapporto è stato violentemente interrotto. Le spoglie del “patrimonio tradizionale intangibile” si trovano, ora, nella grande macchina del riciclaggio industriale, che le indirizza verso la scorciatoia romantica, sterile, idealizzata, dell’orgoglio delle origini.
Così impacchettato e distribuito, il “patrimonio culturale” nella sua versione corrente evita qualsiasi riferimento alla genesi necessariamente sociale e relazionale del patrimonio stesso. Ovviamente, in un’Italia dove – lo conferma anche il CENSIS nel “Ritratto degli italiani del 2011”- il debole viene travolto sulle strisce pedonali o aggredito per futili motivi, dove le vecchie buone maniere sono decadute e dove la tragedia dell’Aquila è divenuta business per costruttori e faccendieri senza scrupoli, ebbene, in un simile sfilacciamento della vita comunitaria, del patrimonio culturale rimane in circolazione un fantasma verbale tanto effimero quanto politicamente ricorrente. Alla luce di questi dati, diventa quanto mai utile analizzare l’andamento delle pratiche sociali tradizionali nei paesi del cosiddetto “cratere” e comparare i vari modi con cui gruppi sociali e istituzioni si “appropriano” delle risorse culturali stesse, attivandole o, alla peggio, non se ne appropriano, lasciandole decadere. Perciò, oggetto della presente analisi sono tre beni demo-etno-antropologici intangibili, ovvero tre feste folkloriche; il terreno di indagine è quello ricompreso tra la valle Subequana e il Sirente-Velino; il contesto sociale è quello di tre piccoli paesi montani: Goriano Sicoli (616 abitanti), Castel di Ieri (355 abitanti) e Cocullo (285 abitanti). Innanzitutto puntualizzo che, scendendo sotto i 300 abitanti, si ritiene che un borgo si incammini verso lo spopolamento definitivo per una serie di motivi legati al senso di isolamento, alla perdita delle relazioni, alla chiusura dei negozi e delle attività. In questo caso, la questione è aggravata dal post-terremoto e dalla parallela crisi economica epocale, che ha esposto la presente area ad un rischio maggiore di deculturazione.
Dopo un evento traumatico – ovvero, dopo quella che Ernesto De Martino chiamava “apocalisse culturale” – il patrimonio intero di una popolazione è messo in discussione, accanto alla necessità dell’intervento abitativo o restaurativo; questo postula che il terremoto del 2009 abbia modificato profondamente l’assetto culturale locale, trasformando l’immagine soggettiva che gli abitanti e i residenti hanno del loro mondo, di loro stessi e dei loro bisogni. Di questi paesi, ho valutato le tre feste patronali, insomma le feste più rappresentative di o- gnuna di queste comunità che indirettamente stiamo esaminando nel periodo post-sismico. Sono tre feste calendariali del periodo primaverile-estivo: San Domenico (Cocullo), Santa Gemma (Goriano), San Donato (Castel di Ieri). Nell’annus horribilis 2009, subito dopo le distruzioni del 6 aprile, queste tre feste non sono state cancellate; esse si sono svolte nella data e nel luogo tradizionalmente indicati, ma semplicemente “in modo ristretto” e con tono minore. Questo, non solo per segno di lutto, ma anche per evitare gli assembramenti negli abitati, dove gli edifici pubblici e privati dovevano essere ancora esaminati ed eventualmente messi in sicurezza. Perciò le amministrazioni locali, in ottemperanza alle decisioni della Protezione civile, avevano ordinato la sospensione degli eventi pubblici, con relativo sfrondamento della cornice tradizional-popolare (banda, processione della statua per le vie del paese, corteo di devoti, fuochi d’artificio e concerto del cantante). Mancavano anche altri elementi caratterizzanti: per esempio, a Cocullo le serpi catturate prima del 6 aprile in onore del santo sono state liberate; a Santa Gemma, la ragazza impersonante la santa è arrivata da S. Sebastiano dei Marsi in piccolo corteo e con la tradizionale toccia votiva, ma la Casa di Santa Gemma è rimasta chiusa; sono saltati, invece, il pranzo collettivo rituale e la distribuzione del pane sacro nelle case. Nei tre riti, l’elemento mantenuto è stato quello della “Santa Messa”, come se la funzione religiosa fosse in ultima analisi l’insopprimibile approdo in un momento così infausto. L’accorato appello per la salvezza si è comunque rivolto alla statua del Patrono; interessante è che proprio le statue dei Patroni dopo il 6 aprile siano state protagoniste di “prodigiosi salvataggi” per via del cedimento delle cupole delle chiese: messe al sicuro in chiese sostitutive, le statue hanno comunque continuato ad irradiare la loro carica simbolica salvifica. Ma c’è di più. Un attento studioso del luogo, Massimo Santilli, mi ha fatto notare che, nella cultura orale di Goriano Sicoli, dal 2009 circola una leggenda per la quale si sarebbe verificato un “assorbimento materiale del sisma” da parte della “Santa” la quale, sacrificando le sue emanazioni materiali (cioè la Chiesa), come un parafulmine avrebbe protetto le case degli abitanti dalla devastazione tellurica.
Lo stesso convincimento popolare si registra a Pratola Peligna dove, pur non rientrando nel “cratere”, la danneggiatissima chiesa della Madonna della Libera nel 2010 è stata riaperta al culto grazie ad una task-force di offerte pervenute anche dai compaesani emigranti, rendendo così possibile mettere in sicurezza l’edificio. “La faglia passa sotto il Santuario della Libera, sul quale si è scaricata tutta l’energia sismica, salvando il resto del paese”: questo è il pensiero comune a Pratola. Ho riscontrato che anche a Cocullo, dove tra gli edifici pubblici e privati fu la chiesa di S. Domenico ad avere la peggio nell’aprile del 2009, molti paesani interpretano gli eventi in modo affine: S. Domenico, sacrificando la sua cupola, ha salvato il borgo dalla distruzione.
In realtà, trattandosi di edifici storici e di grandi dimensioni, ad avere la peggio nel 2009 sono state proprio le chiese, dotate di ampie cupole e alti campanili. Tutte le chiese dell’Arcidiocesi dell’Aquila sono crollate o sono state dichiarate inagibili: ben pochi sono stati i “miracoli”, cioè le strutture che hanno resistito alla furia del terremoto. Tuttavia, tra la popolazione è prevalsa una interpretazione simbolica che ha rimesso in circolo le epifanie dei santi, a cominciare dal “miracoloso salvataggio” della teca che contiene Papa Celestino V sotto le macerie della volta della Basilica di Santa Maria di Collemaggio (e le spoglie del “papa del gran rifiuto” già si erano “miracolosamente salvate” nel terremoto del 1703). Secondo una diffusa interpretazione sovrannaturale della faglia, la chiesa danneggiata, la cupola collassata o il campanile sgretolato sono metafora del sacrificio del santo che, immolando il suo simbolo terreno (l’edificio sacro), salva la comunità dei fedeli. Nel contempo, le “spoglie mortali/immortali” dei santi locali si sono salvate dalla furia della natura e dal crollo delle loro secolari dimore: è accaduto a Celestino V, ma anche a Santa Gemma, le cui reliquie non sono state intaccate dal crollo della cupola. Questa attribuzione salvifica, tuttavia, presso gli abitanti di Castel di Ieri non è circolata. E’, questo, un sintomo di deculturazione post-sisma oppure il processo era già iniziato prima? Perché, inoltre, la festa di Cocullo, a differenza delle altre, dopo il sisma sembra addirittura essersi implementata, come mostra l’introdursi autonomo di nuove presenze rituali?
Accanto alla vitalità di due culti (i santi Domenico e Gemma vengono percepiti come “potenza antisismica attiva”, in grado di proteggere la popolazione) emerge la loro parallela “mediaticità”. La presenza dei turisti e delle telecamere, in questo caso, non ha rovinato il rito, ma lo ha implementato nel livello popolare e locale. E’ il caso di Cocullo, che negli ultimi trent’anni è divenuto per eccellenza il “paese della festa” e il simbolo generale della “addomesticazione del selvatico”. Questa “mediatizzazione” si deve agli antropologi culturali (Profeta, Cercone, Giancristofaro) e soprattutto a Di Nola, che nel 1976 ne esportò l’immagine a livello internazionale: insomma, il rituale si inserì nel flusso culturale globale e ne venne potenziato, ricavandone un aumento dei partecipanti (fino a 30mila). In memoria dello studioso, nel 1997 amici e colleghi costituirono in paese un Centro Studi che da allora affianca il Comune e la Pro-Loco curando la parte “per addetti ai lavori”, senza interferire con l’operato dei detentori della festa, limitandosi semmai a rispondere alle loro richieste. Accanto al rito, ogni anno si tiene un convegno “laico” che attira gli esperti del settore (giornalisti e studiosi). Dunque, il Centro Studi ha funzionato finora non come un esplicito “propulsore del rito”, che è rimasto interamente nelle mani dei paesani, bensì come un “propulsore di riflessione” sul rito, insomma come un meccanismo regolatore del suo svolgersi in seno alla comunità. Insomma, da parte dei cocullesi la festa si fa non perché c’è il Centro Studi, bensì per auto-identificazione in un valore patrimoniale intrinseco che non chiede altri riconoscimenti esterni, tanto che la possibilità di elevarsi alla lista UNESCO è stata dichiarata da alcuni paesani come “inutile”: “non ne abbiamo bisogno: finché ci saremo noi e ci saranno i serpenti, la festa ci sarà”, dichiarano i serpari addottrinando le nuove generazioni sull’arte ofidica. Il collegamento tra Centro-Studi e Istituzioni locali ha realizzato, dunque, un circolo culturale virtuoso. Tanto forte è stato lo spirito comunitario che la fase post-sismica, malgrado i danni materiali e morali, ha accresciuto l’effervescenza culturale nel paese, che si è addirittura definito “crea-tere”, anziché “cratere”, evidenziando i suoi pieni, anziché i suoi vuoti. Quanto agli altri due rituali, pur senza l’interessamento internazionale dell’occhio della telecamera, anch’essi hanno suscitato la riflessione degli studiosi, senza tuttavia istituire un Centro Studi. Tuttavia, è interessante che San Donato non abbia simbolicamente protetto i suoi paesani dal sisma. E’ possibile, come problematizza lo studioso Massimo Santilli, che questo sia sintomatico di una deculturazione, di una perdita di alcuni riferimenti locali e campanilistici. Le feste sono canovacci tradizionali che subiscono, di anno in anno, piccoli cambiamenti; anche i modi apparentemente inadeguati e disfunzionali, come appunto la deculturazione di una festa patronale (e in Abruzzo, negli ultimi vent’anni, sono molte le feste cadute in dismissione) hanno un senso e una giustificazione nel loro contesto.
Stralcio dell’opera di Lia Giancristofaro
Università degli Studi “G. d’Annunzio” Chieti Pescara
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