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Per l’Arte in Abruzzo – Enrico Santangelo

 

Così come credo che le introduzioni ai libri si scrivano quasi sempre alla fine (e alla fine forse si dovrebbero leggere), anche questa nota nasce a cose fatte. Cose fatte e “accadute”, occorre subito precisare: ché dinanzi alle ferite aperte e doloranti per le sciagure sismiche del 2016, sovrapposte con accanimento a quelle per nulla cicatrizzate dell’Aquila del 2009, scrivere dei saggi di storia dell’arte su di alcuni luoghi martoriati nelle persone e nelle cose potrebbe suonare quasi beffardo.

In realtà, sia rispetto all’ultimo terremoto ramificato tra Amatrice, Arquata del Tronto, Norcia (e sono, questi luoghi, solo i riferimenti simbolici di un intero territorio devastato), sia rispetto allo stesso terremoto dell’Aquila, molte di queste pagine erano state già scritte (almeno tutte quelle che interessano le località colpite), ma oggi assumono a mio avviso il valore impegnativo di una testimonianza: non solo come documento, ma innanzitutto perché non si affievolisca il sentimento di un’appartenenza che passa anche, adesso, per la conoscenza di cose alte. Fu a suo tempo lanciato l’invito a “conoscere” assieme a “non dimenticare”, allorché all’indomani della tragedia di otto anni fa si esportarono varie mostre dell’arte aquilana e più in generale dell’Abruzzo in paesi lontani, che della nostra regione avevano forse se l’avevano l’immagine oleografica del popolo “forte e gentile”. Ora, in verità, quest’immagine esiste ed essa, a saperne intendere l’ossimoro, può ben stare alla base di un “vigore” e d’una “dolcezza” che, forse meglio che in ogni altro campo artistico, troviamo espressi nelle prove di scultura: dalle psicostasìe medie vali vigorosamente “asciate” per essere poi “ricamate”, ai portali atriani le cui pietre, prima energicamente sbozzate, sembrano finire per ammorbidirsi miracolosamente fino alla cera sotto il più fino scalpello, a cesellare i complessi motivi vegetali; alle Madonne quattrocentesche a un tempo dolci e severe, austere regine e madri amorevoli. E certo io guardo tuttora alla necessità di una più grande mostra sulla scultura abruzzese, che possa raccogliere e offrire al confronto non solo il già notevole repertorio museale (come finora s’è fatto), ma anche, e tacendo dei vasti depositi dei musei stessi, le tante opere conservate nelle sagrestie delle chiese nostrane, quando non appartenenti a collezioni private o a musei stranieri, e non più tornate in patria. Una mostra così concepita, con un più lontano orizzonte rispetto alla pur meritoria esperienza delle rassegne “tematiche” già realizzate, offrirebbe finalmente da un lato l’occasione – oggi necessaria – di costruire l’inventario sistematico e il più allargato possibile dei “pezzi” significativi, e dall’altro il pretesto per fare il “punto” sullo stato complessivo degli studi, che negli ultimi decenni e in particolare proprio sulla scultura si sono intensificati, dopo le aperture di Carli, Bologna e pochi altri, rivoluzionando quell’assetto critico precedentemente fermo sulle posizioni fissate dagli eruditi tra fine Ottocento e primi del Novecento. Ma c’è un accadimento che separa i primi studi pionieristici ottocenteschi del Leosini, del Signorini e del Bindi dall’accrescersi repentino di un’attenzione verso l’Abruzzo, ed è quella rassegna cruciale che inaugurò il Novecento, la “Mostra d’Arte Antica Abruzzese” tenuta a Chieti tra il 10 giugno e il 31 ottobre del 1905.

 

 

Da quel lo spartiacque inizia la consapevolezza critica per un patrimonio artistico regionale, che oggi converrebbe chiamare dell’Abruzzo piuttosto che abruzzese (tante e tan to articolate sono le componenti che intrecciano le risorse artistiche locali con le in fluenze esterne). A più d’un secolo di distanza da quell’evento gli studi specifici so no cresciuti esponenzialmente, così come è enormemente aumentata l’attività di restauro e di conservazione delle opere, ma forse quell’antica presa di coscienza richiede nuovamente, con forza, un sincero momento di riflessione. Restando alla scultura del Rinascimento (sicuramente l’epoca che ha visto primeggiare la scuola aquilana), penso all’auspicio di poter radunare le opere di uno scultore come Paolo Aqui lano “il vecchio”, il quale più di altri vede disperso il proprio catalogo, se si ragiona che una Madonna col Bambino è esposta agli Staatliche Museen di Berlino, un’altra è peregrinante nel mercato antiquario (già in dotazione agli Antichi Maestri Pittori di Torino), la bellissima Madonna adorante è ai Cloisters di New York, e la sorprenden te “testina” – recentemente entrata a far parte del repertorio dello scultore originario di Montereale – è conservata nel Museo Santi di Cascia (mentre altri numeri sono appartati nelle chiese d’origine, come la Madonna della Candelora di Tocco Casauria, per la quale occorre ribadire l’autografia di Paolo, o la Mater Domini di Chieti): mai finora queste sculture sono state accostate direttamente, in una mostra, all’unica opera firmata, la Lévapène di Civitaquana ora al Museo aquilano. Così, per la pittura, vorrei vedere ricomposto, almeno in un momento espositi vo, il polittico “del Paradiso”, già virtualmente ricostruito dal Bologna fin dal 1948 come “testa di serie” per il Maestro dei Politici Crivelleschi: eppure, fatta eccezione del comparto con il san Francesco, già ad Assisi e attualmente custodito nel Museo dei Cappuccini di Roma, tutti i pezzi smembrati sono qui in Abruzzo, tra il Museo Nazionale e il Museo Barbella di Chieti, e mi chiedo altresì perché ancora non si rimuovono le orrende ridipinture dai pannelli di Chieti. Per giunta di questo anoni mo Maestro, si aggiunge ora felicemente un nuovo, inedito numero al non troppo nutrito catalogo, fermo alla ricognizione di Ferdinando Bologna di quasi 70 anni fa. Allo stesso modo, un mio desiderio personalissimo è che gli interventi di restauro si mettano in cantiere anche con una “progettualità conoscitiva”, quasi nella scommessa – che qui voglio lanciare – di verificare come sotto la coltre pesante di ri dipinture e ristuccature si possano non si rado ritrovare opere importanti, alcune da convogliare ad esempio – ojalá – all’ambito dell’ancora assai problematico Giovanni Antonio da Lucoli: e chissà se già non potrebbero essere una Madonna lignea con servata nel convento delle Alcantarine a Manoppello, o una in terracotta, detta del Corbarolo, esposta nella chiesa di San Bartolomeo a Cerchio.

San Bartolomeo – Cerchio
Sir Richard Colt-Hoare 1758-1838

Sono opere “occultate”, avvilite da interventi impropri, ridotte a forme quasi caricaturali ma dove traspaio no ancora – a volerle coglierle – tutte le potenzialità di rivelarsi come pezzi notevoli. Ecco, anche con questo spirito di “servizio”, auspico la lettura di alcune ricapito lazioni di catalogo che il libro ora offre. Infine, occorrerà non desistere dal “cercare”: un’indagine esplorativa di un territorio complesso e in parte misconosciuto è ancora tutta da completare; e rivelerebbe scoperte preziose, inaspettate, come mi è apparsa la terracotta del possibile San Marco di Atessa, che ho voluto accostare alla personalità di Saturnino Gatti, o la citata Madonna della Candelora di Tocco. Così fu per la Pentecoste di Santo Spirito a Majella, la cui attribuzione al napoletano Fabrizio Santafede la critica ha confermato, così è per le molte opere diffuse nell’area vestina, tra Penne e Loreto Aprutino. Tutt’altro che alimentare un campanilismo localistico, pur nella consapevolezza di dover riscattare un orgoglio di autonomia culturale a fronte del perdurare, fi no a un recente passato, di un equivoco di “pan toscanismo” che ha aleggiato un po’ su tutte le espressioni artistiche nostrane (non a caso Mario Chini, uno dei maggio ri eruditi dedicatisi allo studio dell’arte abruzzese per tutta la prima metà del Nove cento, era toscano), è il caso di avvedersi di una “specificità” regionale, perlomeno in quelle opere che per dignità di valori figurativi sono sembrate emergere dalle dialettizzazioni più diffuse dell’arte popolare. Si vorrà in tal senso riabilitare quell’assioma longhiano che si attaglia molto bene all’arte in Abruzzo, quando essa è importante: «vigorosamente ‘regionale’ senza essere provinciale». Il registro del libro è rapsodico, discontinuo, come itinerante è il susseguirsi dei saggi e dei luoghi in essi battuti, seppur seguendo un imposto ordine cronologi co: perché viaggiante, diramato, è stato da sempre l’approccio e l’incontro con l’Abruzzo: dai trasognanti esploratori d’oltralpe (Sir Richard ColtHoare, Edward Lear Ferdinand Gregorovius)al geniale Escher che dal fascino dei borghi abruzzesi seppe trarre i suoi enigmi geometrici e paradossi della prospettiva; dai ritrovamenti di Enzo Carli quando, giovane funzionario di soprintendenza tra il ’37 e il ’39, girava le chiese e i borghi d’Abruzzo recuperando tesoretti sconosciuti, al Gianni Berengo Gardin magico fotografo di Scanno; ai quali aggiungere infine un nome misterioso, ma che mi piace immaginare anch’esso appartenente a un solitario viaggiatore tedesco, quel “ThHolm” che nel 1878 si firmò su di un portale dell’abbazia di Santo Spirito a Majella (e oggi qualcuno, credendo così di sanare l’oltraggio a un monumento, ha ancor più barbaramente “cassato” a colpi di raspa). Privo dunque d’un piano preordinato e di un’idea di trattazione sistematica, ché un manuale condiviso sulla storia dell’arte nella regione è a mio avviso lontano da venire, l’indice del volume si limita a raccogliere, secondo una mera scansione temporale che va dal tardo Duecento a tutto il Seicento, taluni saggi “sparsi” (era questo il sottotitolo che forse avrei preferito dare), taluni già pubblicati altri inediti; ciascuno di essi risponde a un problema preciso, già affrontato dalla critica, dove centrale è la questione attributiva: e del resto in uno dei contributi sulla scultura, forse troppo polemicamente intitolato “del revisionismo”, lamentavo quel «rovello qua si ossessivo (e pur tuttavia obbligato) con cui gli studiosi si affannano a stilare – per ogni artista considerato – le proprie personalissime compilazioni di cataloghi del le opere, procedendo per autonome “sottrazioni” e “aggiunte” rispetto alle formulazioni critiche precedenti», intravedendo talvolta un eccessivo accanimento nel girare intorno alle solite opere note, in cerca della chiave ermeneutica capace di sbrogliare definitivamente la matassa su questioni complesse, ma di fatto destinate a re stare per ora nell’alveo delle ipotesi, più o meno condivise dalla comunità scientifica; un accanimento del quale per giunta finisco a partecipare io stesso, proponendo in alcuni casi la mia, di «personalissima compilazione». Ma nell’avvertire «l’approccio dell’analisi stilistica» come «l’unica dinamica conoscitiva possibile», nella «constatazione di un’insormontabile penuria di fonti documentarie» che è l’ostacolo ve ro delle prospettive dello studio della storia dell’arte in Abruzzo, vedo ora un limite della mia ricerca, che probabilmente avrebbe dovuto indagare maggiormente gli archivi, come pure le accademie hanno iniziato a fare; in questo caso si è preferito per correre quell’approccio, difficile e pretenzioso, prospettato dal Toesca: quel “prima conoscitori, poi storici” che tanto affascinò Longhi costituendo il fondamento del suo metodo e della sua scuola. Ora, non essendo qui argomento da affrontare il problema del criterio conosci tivo, mi conterrò nell’osservare che l’attitudine al confronto tra le opere resta il più naturale procedimento di analisi del materiale artistico, nel districarsi in una moltitudine di opere ancora troppo genericamente riferite a poche, prevedibili, personalità artistiche, come sembrano nel Quattrocento abruzzese le figure di Silvestro dell’Aquila e di Saturnino Gatti. E se il Carli avvertiva il limite critico tendente a vederci dipendenti dalle esperienze toscane (e non dovremo rilevarlo solo per l’Abruzzo), forse in questo momento tutto sembra risolversi in una sorta di “pansaturninismo” dopo il “pansilvestrismo” imperante; né la risposta a tale equivoco potrà esse re – all’opposto – la risoluzione agnostica, direi quasi “burocratica” che pure si per corre presso alcuni, di lasciare nel limbo di un cauteloso anonimato qualunque fat to artistico che non sia supportato da un documento certo. Se così si dovesse opera re, ogni sviluppo della ricerca nella storia dei fatti artistici si renderebbe impossibile e decadrebbe la stessa peculiarità disciplinare della Storia dell’Arte, non avanzando nelle sue inclinazioni oltre quanto non faccia già la Storia tout court nel suo por tato più riduttivo, quando cioè si limiti a leggere i documenti. E quanto poi gli stes si documenti non si offrano sempre con evidenza e inequivocabile decifrabilità è sta to già più volte messo in evidenza. Sicuramente i documenti dovranno comprova re le ipotesi. Eppure con meno peso dei documenti di quanto siano valsi i raffronti, si restituisce ora – insieme alla figura e a un ampio catalogo – lo stesso nome storico dell’enigmatico “Maestro di Caramanico”, suggellato sì dal documento, ma emerso pur esso dal confronto, nuovissimo e inedito, con un’opera nota. E sempre dall’approccio comparativo se ne arriva a valutare la consistenza di una bottega articolata, capillare, contro ogni sospetto e a dispetto di censure preventive. Certo, il raffronto va condotto con argomenti, articolando l’analisi e non sol tanto enunciandone gli esiti, ma soprattutto non limitandola alla ricerca della pura identità: un problema centrale sarà cioè quello di saper leggere l’evoluzione del linguaggio nella parabola biografica e stilistica di uno stesso artista, e in tal senso – lo si troverà nel libro – resta centrale la lezione di Ferdinando Bologna, negli ultimi tempi revisionato in talune proposte attributive, in specie da parte di quanti hanno cerca to, sic et simpliciter, la mera sovrapponibilità delle opere per provare l’identità di ma no; per giunta trovandosi disposti, alla prima difficoltà, a frammentare in più mae stri un corpus pur omogeneo di opere: ciò accade per Antonio di Atri, il Maestro di Beffi, il Maestro del Giudizio Universale di Loreto Aprutino; evidentemente non va lutando a sufficienza quanto il complesso intreccio delle influenze esterne, dei colloqui tra artisti, delle committenze, e insomma la fenomenologia stessa che avviene all’interno di una poetica individuale, possa determinare scarti e mutazioni talvolta non lievi nel linguaggio espressivo. All’opposto tali scarti, tutt’altro che indurci ad inventare nuovi e facili nomi convenzionali, dovrebbero obbligarci a meditare più in profondità, e non più in là, quanto i “conoscitori” hanno saputo prospettare. Per il resto, il limite dell’occhio, tanto caro a Federico Zeri, rimane un aspetto insondabile, che sempre costituirà l’oggetto della revisione e della critica.

Enrico Santangelo

 

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Informazioni su Marco Maccaroni 993 articoli
Classe 1956, innamorato di questa terra dura ma leale delle sue innevate montagne del suo verde mare sabbioso dei suoi sapori forti ma autentici, autore, nel 2014, del sito web Abruzzo Vivo

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