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Il castagno della valle Castellara

 

Da Guazzano, ai piedi dei Monti Gemelli, si prosegue per Macchia da Sole, e si entra nel territorio di Valle Castellana e nel Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga. Lungo il percorso, suggestivi scorci panoramici conducono lo sguardo fino al mare; piazzole attrezzate invitano a sostare in un ambiente unico, tanto vicino quanto ‘lontano’ dal trambusto quotidiano. In breve, si avvistano i suggestivi ruderi di Castel Manfrino, in posizione strategica a dominare l’intera vallata del Salinello, antica Via del sale. All’epoca della sua edificazione esso costituiva, insieme a Civitella, un’efficacissima cerniera difensiva dei confini del Regno delle Due Sicilie contro lo Stato Pontificio. Costruito secondo la leggenda nel 1263 per volontà di Manfredi di Svevia, re di Sicilia, sui resti di un castrum romano, subì successivamente le sorti del Regno. Difatti, Carlo D’Angiò, chiamato da Papa Urbano IV per contrastare la casata sveva, sconfisse Manfredi nella battaglia di Benevento conquistando così il suo regno. Numerosi i sentieri segnalati che consentono di raggiugere il Castello, di cui persistono i resti delle mura perimetrali e delle torri.

CASTEL MANFRINO

Dei numerosissimi insediamenti della Valle Castellana, la cui origine longobarda si rileva dai toponimi e dai caratteri nordici di tanti abitanti, di statura piuttosto elevata, biondi e con occhi di colore chiaro, molti conservano particolari di una struttura urbanistica antica: tipiche costruzioni in pietra arenaria locale con mura a secco, passaggi voltati, case-torri, resti di gafii, epigrafi, monogrammi di ordini religiosi quali i gesuiti e i benedettini che testimoniano la loro attività, memoria storica di una terra e di una cultura rurale che merita di essere conosciuta e apprezzata, strappandola a quell’oblio a cui è stata immeritatamente condannata. Da Macchia da Sole si giunge a Leofara, un piccolo e vitale nucleo abitato. All’ingresso del paese, poco distante dalla chiesa, un’insegna in legno attaccata a una vecchia abitazione indica la presenza di un laboratorio per la lavorazione di prodotti tipici. La porta si apre in una stanza insolitamente buia e con un fortissimo odore di fumo. È la cucina di una tipica abitazione rurale, restaurata ad arte. Il fascino sul visitatore è indubbio. Le pareti di pietra annerite dal fumo del grande camino, utensili da cucina appesi e lo scuro legno di castagno a costituire mensole su cui stagionare formaggio di pecora. Al piano superiore è il moderno laboratorio per la lavorazione della castagna. Marmellate, marroni sciroppati, zuppe di legumi con castagne e funghi e altre squisitezze pronte per il consumo come in una dispensa della nonna, che la vetrina di un sito internet proietta in un mercato internazionale; l’ultima domenica di ottobre, Leofara festeggia la raccolta di questo frutto, importantissimo nell’economia della Laga, richiamando migliaia di persone gratificate dal fascino autunnale dei boschi e dalle tante prelibatezze.

LEOFARA

Il castagno è stato qui diffuso in maniera sistematica dall’uomo in epoca romana e medievale, e il suo frutto ha rappresentato per secoli una grande risorsa per le comunità, mezzo di sussistenza e di scambio con altri prodotti, importante nell’alimentazione dei maiali, le cui carni acquistano così una particolare ‘dolcezza’. Le castagne venivano conservate per lunghi mesi, es- siccate su graticci di canne appese ai soffitti delle abitazioni, o in grandi buche scavate nella terra e coperte con le foglie, all’occorenza pestate in un apposito mortaio detto “pila”, ricavato da un masso di pietra e posto fuori l’abitazione vicino all’uscio. Il “castagno di Nardò” o “di Morrice”, coi suoi 14 metri di circonferenza, vero gigante arboreo, ben rappresenta i castagneti secolari della Laga, caratterizzati proprio da alberi vetusti dalle dimensioni colossali. Suggestione e mistero hanno da sempre avvolto questi luoghi bellissimi, che le credenze popolari volevano abitati da un leggendario e dispettoso folletto dei boschi, “lu mazzemarelle”. Tanti i borghi che spuntano dai fitti boschi nella Valle Castellana, tutti interessanti nella ricostruzione storico-culturale di una comunità. Uno attira fortemente la nostra curiosità: è Vallenquina. Il toponimo che significa “valle che incute paura” è appropriato ancor oggi; una torre merlata troneggia sui pochi tetti, è Castel Bonifaci, costruzione del secolo scorso di imitazione gotica. E poi, Capolaterra, toponimo che indica il carattere militare del sito; Collegrato, dimora di parenti di Giuseppe Piccioni, famoso brigante; Colle Pietralta, così chiamato per la sua dislocazione; Fornisco, per una singolare insegna di bottega settecentesca scolpita sul concio d’angolo di una casa, forse rimesso in opera, e tanti altri ancora.
A Valle Castellana, capoluogo, è da visitare la Chiesa della SS. Annunziata, dell’XI secolo. Della struttura medievale sopravvive la cripta, mentre cinquecenteschi sono la facciata e i pregevoli affreschi; caratteristica della costruzione è l’uso di arenaria dorata e di una pietra più compatta di colore grigio antracite, che alternate creano un motivo a fasce.

VALLENQUINA

A pochi metri dalla chiesa, è segnalato un percorso che conduce sul torrente Castellano e a un vecchio mulino ad acqua ormai in disuso. Prima di proseguire per il Ceppo, nota località nel comune di Rocca Santa Maria, si suggerisce una passeggiata a S. Giacomo, sulla Montagna dei Fiori, località turistica frequentata d’inverno per la presenza di impianti sciistici. Caratteristiche della Montagna dei Fiori sono le caciare dei pastori: in tutta l’area se ne contano oltre cinquanta; utilizzate per la lavorazione del latte e la produzione di formaggio, e come temporaneo ricovero per il pastore, sono accostate, per somiglianza strutturale, ai tholos, tombe micenee a cupola, e ai trulli siti nelle terre pugliesi frequentate dai pastori abruzzesi durante la transumanza. In questa zona, si segnala la bella Chiesa di Santa Rufina del XII secolo, che conserva una bella cripta; al suo interno era un trittico di Pietro Alamanno, oggi conservato al Museo dell’Aquila. Vicina è San Vito, dove sorge l’omonima Chiesa, risalente nella parte più antica al XII secolo. In località casa Rossi, è la Chiesa di S. Maria, anch’essa del XII secolo, con il tetto a capanna e mattoni di copertura a vista dipinti di bianco e rosso per metà, con una suddivisione a triangolo, caratteristica degli edifici del XV e XVI secolo del Teramano e dell’Ascolano. Poiché è inevitabile fare riferimento al fenomeno del brigantaggio nei Monti della Laga, non come spunto folcloristico ma come espressione dello storico disagio sociale delle comunità montane, occorre ripercorrere brevemente la storia per conoscerne le origini. La “tradizione ribelle” nell’area della Laga risale all’89 a. C. quando, in seguito alla guerra condotta da Roma contro la Lega italica, venne distrutta la città di Ascolum, e coloro che sfuggirono al massacro si rifugiarono tra i boschi della Montagna dei Fiori e dell’attuale Valle Castellana. Durante il Medioevo, a causa delle condizioni di miseria, il brigantaggio si diffuse tanto che, alla fine del XVI secolo, Papa Sisto V inviò migliaia di soldati per controllare il fenomeno, che fu arginato prima con l’uccisione di due capibanda, Giuseppe Piccioni e il cognato Matteo Sciarra e, poi, con un’operazione ‘diplomatica’, concedendo il perdono a oltre 600 banditi disposti a partire volontari per l’Ungheria a combattere contro i Turchi. Il brigantaggio moderno sui Monti della Laga ha inizio sul finire del XVIII secolo.

CHIESA DI SAN VITO

Contadini e montanari, sotto la guida dei religiosi, insorsero in maniera sanguinosa contro gli “invasori”: il fenomeno fu soffocato solo sul finire del secolo con l’intervento dell’esercito. Caratteristica e pittoresca è la figura di uno dei primi capi-briganti attivi in questa zona, Donato De Donatis, prete di Pezzelle, vicino Cortino, definito “uomo sanguigno, rozzo ma coraggioso e intelligente”. Le scorrerie che compiva con la sua banda erano così efferate e di tale impatto che il nome “Donato”, per molto tempo, non fu più imposto ai neonati del luogo. Giuseppe Costantini detto “Sciabolone”, compagno di lotte del De Donatis, a capo degli “Insorgenti” nel 1799, dopo aver massacrato la guarnigione francese arrivò a ‘conquistare’ Ascoli, ma l’assedio non durò a lungo. Successivamente, si schierò al fianco del comandante Matteo Wade nella resistenza del forte di Civitella all’attacco dei Francesi. Con la capitolazione della fortezza, si rifugiò nei boschi della Laga, in attesa del momento più propizio alla resa; considerata persa la causa per cui aveva combattuto e conquistata la fiducia dell’antico nemico, fu arruolato come cacciatore di banditi. Le Guide degli Sciaboloni, con la divisa di panno nero bordato di rosso e cappelllo tondo, battevano le montagne per catturare i briganti. Ciprietti, detto Jacone, di Campovalano, capobanda attivo nel civitellese, fu preso e decapitato, la sua testa esposta in un sito fuori le mura della città a esempio e terrore per gli altri malvagi. Costantini fu incorporato nei Corpi militari regolari con il grado di Capitano, e morì a Capua nel 1808, due anni dopo la fucilazione del suo vecchio compagno De Donatis.

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Informazioni su Marco Maccaroni 993 articoli
Classe 1956, innamorato di questa terra dura ma leale delle sue innevate montagne del suo verde mare sabbioso dei suoi sapori forti ma autentici, autore, nel 2014, del sito web Abruzzo Vivo

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