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La battaglia di Tagliacozzo

Battaglia decisiva che segnò, con la sconfitta di Corradino di Svevia, la definitiva affermazione di Carlo I d’Angiò nel regno di Sicilia. Fu combattuta il 23 agosto 1268 in una contrada situata a est di T., sulla riva destra del Salto, e compresa tra Magliano dei Marsi, Albe, Antrosano, Cappelle e la via Valeria, nella parte estrema della pianura Palentina. L’espressione dantesca là da Tagliacozzo (If XXVIII 17) è dunque esatta nella sua generica determinazione topografica, e però va intesa nel significato di ” al di là di T., oltre T. “, ma senza l’indicazione precisa di un punto, come credeva A. Bassermann (Orme 265-266).

Dopo l’arrivo di Corradino a Roma (24 luglio 1268), un consiglio di guerra, considerate le forti posizioni del nemico sulle linee del Liri e del Volturno, scartò la direttrice Ceprano-Capua e decise di sviluppare il piano d’invasione del Regno attraverso l’Abruzzo, anche perché lo Svevo aveva interesse a ricongiungersi al più presto con i suoi sostenitori della Puglia, che si erano ribellati. Carlo d’Angiò, che dovette aver subito informazioni sul piano del nemico, accorse immediatamente alla difesa dei confini settentrionali del Regno. Già il 4 agosto era a Castrum Pontis, posto a metà strada tra Magliano dei Marsi e Cappelle, a nord di Avezzano; e il 9 e il 14 pose l’accampamento nei pressi di Scurcola Marsicana sulla via Valeria, dove evidentemente si aspettava il passaggio del nemico.

Ma Corradino, che si mosse da Roma solo il 18 agosto, giunto a Carsoli, sia forse per evitare la trappola del doppio attraversamento del Salto, che subito fuori T. descrive una curva a gomito nord-sud-nord, sia per evitare la battaglia prima del congiungimento con i suoi partigiani di Puglia, lasciò la via Valeria e si diresse a nord nelle parti del Cicolano, dove attraversò il Salto nei pressi del lago omonimo. Carlo d’Angiò, credendo forse che Corradino volesse raggiungere Sulmona per la valle dell’Aterno, lasciò Scurcola e si diresse a Ovindoli, dove giunse la sera del 20 o la mattina del 21 agosto, incerto sulle mosse dell’avversario. Ma la sera del 22 agosto i due eserciti si trovarono di fronte sulle opposte rive di un piccolo corso d’acqua (volgarmente ” riale “, ” ritello “, cioè ruscello) dalle rive alte e scoscese, ma oggi in parte interrato e scomparso. Corradino, scendendo da nord per la strada Borgorose (già Borgocollefegato) – Cappelle, si era accampato alle falde del monte Carce presso Magliano dei Marsi, sulla riva destra del Salto. Carlo d’Angiò, risalendo da Cappelle, dov’era giunto in tutta fretta da Ovindoli, quando seppe che l’avversario per eluderlo aveva di nuovo cambiato direzione puntando verso sud, si era accampato su un terreno collinoso presso Albe, da dove dominava l’accampamento nemico, distante non più di due-quattro Km. La mattina del 23 agosto 1268, subito dopo la levata del sole, l’esercito di Corradino, che si aggirava intorno ai 5000 uomini, avanzò verso il ruscello su tre formazioni. La prima era composta probabilmente di cavalieri tedeschi, di ghibellini toscani e di rifugiati del Regno, comandati rispettivamente da Kroff di Flünglichen, Corrado di Antiochia e Galvano Lancia. Seguiva a poca distanza, al comando del senatore di Roma Enrico di Castiglia, la seconda schiera formata di Spagnoli e ghibellini romani. Da ultimo veniva la formazione di ghibellini lombardi, comandati dal marchese Pelavicino e nella quale si trovava anche, con la sua guardia del corpo, Corradino e il suo giovane amico Federico d’Austria.

Dal canto suo Carlo d’Angiò, che aveva preparato con la collaborazione di Alardo di Valéry un preciso piano di battaglia, divise anche lui il suo esercito, che non doveva superare i 4000 uomini, in tre schiere. La prima, composta di Provenzali e di guelfi italiani, era comandata dal maresciallo di Francia Henri de Courence, che Luigi IX aveva inviato presso il fratello per trattative in vista della crociata. La seconda schiera, che era formata probabilmente da mercenari francesi rinforzati forse da nuclei provenzali, era comandata da Jean de Clary e dal siniscalco di Provenza Guillaume L’Estendart, che più tardi rivestì importanti cariche nel Regno. La terza schiera, comandata dal re Carlo in persona, era composta di circa 1000 fra i più esperti e valorosi e fidati cavalieri del re. Questa terza formazione, secondo una concezione strategica che Alardo di Valéry aveva appreso in Oriente dal modo di combattere dei Turchi, rimase in agguato, nascosta dietro un colle situato poco a sud del monastero di San Pietro tra Albe e Antrosano. Il piano, che era stato studiato anche per supplire all’inferiorità numerica e forse di armamento dell’esercito di Carlo, prevedeva che le prime due schiere dovessero muovere contro il nemico per attirarlo sul terreno collinoso, dove il re angioino da posizione vantaggiosa avrebbe sferrato l’attacco decisivo. Le prime due formazioni angioine mossero dunque incontro al nemico sulla riva sinistra del ruscello, mentre sull’opposta riva l’esercito di Corradino si era già messo in marcia. Henri de Courence portava le insegne reali con i gigli della casa di Francia e per questo fu scambiato dalle truppe sveve per la stessa persona del re. Le due schiere angioine, secondo il piano di battaglia, non dovevano impedire al nemico l’attraversamento del ruscello, perché esso avrebbe dovuto servire poi a ostacolare agli Svevi la ritirata al momento dell’attacco di sorpresa.

Ma le truppe di Corradino, che da parte loro avevano forse fatto un calcolo analogo, si arrestarono, anzi, senza rompere, naturalmente, le formazioni di combattimento, misero piede a terra come per riposarsi, nei pressi di Castrum Pontis, nel punto cioè dove la strada Cappelle – Magliano dei Marsi superava il ruscello con un ponte di legno. Questa mossa che sembrò mandare all’aria il piano strategico di Alardo, sconcertò i capi angioini, che, dopo essersi arrestati anch’essi, occuparono il ponte di legno. Gli Svevi, consapevoli della loro superiorità numerica, presero una rapida decisione: mentre una parte teneva impegnato il nemico sul ponte, sia pure senza spingere a fondo, la schiera di Enrico di Castiglia, protetta dalle siepi alte e folte delle rive che nascondevano la manovra, discese lungo il corso del ruscello in direzione della confluenza col Salto. Attraversò quindi il ruscello e piombò improvvisamente sul fianco sinistro e alle spalle del nemico tagliandogli la ritirata. Nello stesso momento l’altra formazione sveva forzava il passaggio del ponte, e in breve le prime due schiere angioine furono distrutte. Nella mischia cadde anche Henri de Courence e le sue insegne reali fecero credere agli Svevi di aver ucciso il re. E mentre gli Spagnoli di Enrico di Castiglia si lanciarono all’inseguimento dei fuggiaschi, le truppe sveve rimaste sul campo di battaglia nella consapevolezza e nella gioia della vittoria ruppero le loro formazioni e si sparpagliarono per la pianura in cerca di bottino. A questo punto Carlo con le sue truppe scelte tenute in riserva attaccò improvvisamente gli Svevi, che, colti di sorpresa, dopo un aspro combattimento, furono completamente battuti. Corradino fuggì alla volta di Roma, per la stessa strada percorsa nei giorni precedenti. Intanto Enrico di Castiglia, che nella prima fase della battaglia si era allontanato all’inseguimento del nemico, riordinate le sue truppe, ritornò indietro e si rese conto, solo allora, che la situazione si era completamente capovolta.

I cavalieri di Carlo, schierati in ordine di battaglia, lo stavano aspettando. Ma le forze di cui disponeva Enrico di Castiglia erano sempre temibili, per numero e per armamento, in caso di attacco frontale. L’esito della battaglia fu deciso ancora dall’accortezza tattica di Alardo di Valéry, il quale, simulando una fuga, trasse all’inseguimento una parte dei nemici, riuscendo così a rompere la formazione di Enrico di Castiglia, che fu attaccato da Carlo d’Angiò. Dopo un ultimo duro scontro, anche le truppe spagnole furono sconfitte e poste in fuga. Alla fine di quella sanguinosa giornata, giacevano sul terreno quasi 4000 morti e poco meno dovettero essere i feriti: l’esercito di Corradino fu distrutto, quello di Carlo decimato.

Tra i prigionieri caduti nelle mani di Carlo ci fu Pier Asino degli Uberti, capo dei ghibellini toscani e, secondo gli antichi commentatori (Benvenuto, Lana, Ottimo, Chiose senesi riferite da G. Rondoni, Tradizioni popolari e leggende di un comune medioevale, Firenze 1886, 187), un senese, tal Mino dei Mini, per il cui riscatto l’amico Provenzano Salvani si umiliò a stendere la mano sulla piazza maggiore di Siena.

La battaglia di T., che trovò ampia risonanza negli annali e nelle cronache italiane e francesi, guelfe e ghibelline, e nella letteratura trobadorica, è riecheggiata da D., per il suo sanguinoso svolgimento, in un’ampia protasi ipotetica, sviluppata come termine di un impossibile confronto fra il numero dei corpi mutilati in quella e in altre battaglie combattute in terra di Puglia e i dannati della bolgia dei seminator di scandalo e di scisma (If XXVIII 35). Il ricordo dantesco sembrerebbe così non più che un inciso, tuttavia il richiamo alla battaglia di T. – così come a quella di Benevento – proprio nella bolgia degli ‛ scismatici ‘ assume, nello sfondo sanguigno del canto, per l’aderenza anche degli elementi accessori all’unitaria concezione di D., un carattere emblematico di discordia civile e di odio politico.

@ Enzo Petrucci

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Informazioni su Marco Maccaroni 993 articoli
Classe 1956, innamorato di questa terra dura ma leale delle sue innevate montagne del suo verde mare sabbioso dei suoi sapori forti ma autentici, autore, nel 2014, del sito web Abruzzo Vivo

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