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Guglielmo Cameli poeta

Ebbe un forte senso di appartenenza alla sua città natale, da dove non volle mai allontanarsi in cambio di avanzamenti di carriera, che sovente gli venivano proposti dal Superiore Ministero. Fu, dunque, un uomo assai laborioso e dotato di straordinarie capacità intellettuali, che, nel corso della sua non lunga esistenza, diede sempre prova di coerenza, secondo quanto testimonia un suo intimo amico:

«Sono personalmente convinto che, se non esistesse, bisognerebbe inventarla, direi quasi costruirla, se la espressione mi è lecita, una personalità come quella del nostro poeta Cameli. Chè in lui torreggia, e non lo dico a gabbo, una rispondenza esatta tra opera e pensiero»

Se encomiabili appaiono i suoi tratti umani, non da meno sono quelli che connotano la figura del poeta Cameli, sin da quando, nel 1920, fu chiamato a collaborare al periodico, Il Piccolo Sasso, un giornale umoristico locale. Attraverso vignette corredate di briose filastrocche, che firmava col nome d’arte di “Fortunello” , ebbe modo di evidenziare la sua abilità di umorista. Personaggi caratteristici o che svolgessero in città un ruolo “pubblico”, divennero, sotto la sua penna, oggetto di spassosi versi, come questi:

Se vedete andar per via un ometto di statura che assomiglia un po’ alla mia carnagione alquanto scura, occhio vivo, intelligente faccia piena di rossore, dir potete certamente: quello è Trotta il Professore.

Dopo aver preso dimestichezza con la rima, a forza di comporre filastrocche, Cameli iniziò a scrivere delle poesie in vernacolo. Ma palesò disinteresse per l’immediata divulgazione a stampa delle stesse, e ne spiega le ragioni nelle due terzine del sonetto Povera Musa mì:

Vite cuma camméne terra terre, cuma ‘ndròppeche simbre, cuma trove pe’ la speranza mi’ li porte chiuse! Créte, nne esce da stu serra serre, se nen me di’ na cé de forza nove, se nen m’aiute tu, povera Muse

Al contrario di chi, da estemporaneo verseggiatore, si spaccia poeta, Cameli, per esperienza, sa che, per potersi definire tale, la rima non basta, se essa non è il risultato di un lungo lavoro. In questo senso, egli finisce per dare maggiore importanza ai testi poetici in sé piuttosto che alla loro pubblicazione, producendo così l’effetto di mantenerli, per lungo tempo, inediti. Sicchè i suoi familiari saranno costretti a pubblicarli postumi: I canti Di Fortunello, nel 1960, mentre Il ritorno di Fortunello, un po’ più tardi, nel 1967. Al suo esordio di poeta in dialetto, nella prefazione di Canzune pajesane , riprese a firmarsi con il nomignolo di “Fortunello”, quasi a significare di non voler rinunciare allo spirito umoristico, che aveva caratterizzato la sua precedente esperienza di autore di filastrocche. E se non seppe dare una sintesi personale del suo ambiente di origine, tuttavia lo rispecchiò intero, in modi, per così dire, giornalistici, cogliendone a volo, con arguzia, gli aspetti insoliti e ridicoli. E di questa sua singolare vena, il figlio Marcello, poeta anche lui, ci informa così:

Fra poche arjarà ‘n gére, Cuma tinde anne arrete ‘llu brave cantastorie de nome Fortunello che nghe ‘lla vocia su’ singère assì, segrete arcandarà l’amore pure de li fandelle, e d’ugne cittadéne cilebbrarà la véte, l’unore e la saggiàzze sole pe’ farce réte

In ogni caso, il tema più ricorrente nella sua produzione poetica è Teramo, nei suoi personaggi illustri, A Giannina Milli o in quelli più caratteristici, Musciarille, Bradde Mingente, o nei suoi monumenti, La chise de San Dumaneche, La leunàsse, o negli ideali civici Rispìtte li vicchie, L’unestà , A lo parlare agi mensura. Nella sua città natale,

«ritrova la sua anima in intima fusione con il destino che gli è scritto, fra la culla e la tomba, sì da trascinarlo ad esclamare, con accenti che hanno il tono di un voto, in quattro versi dell’ode a Terame: So nate fra ssi mure, che m’à viste de hote e de suffrè, ma pe’ ‘tta lu penà nen m’ahè dure e fra li mure tu vuje murè».

L’attaccamento ad essa è talmente forte da preferire, a quella italiana, il dialetto, come “lingua ufficiale” dei suoi componimenti. Con tale opzione, vuole dimostrare agli scettici che con il dialetto «si può esprimere ben altra universalità di sentimento e di cuore, che è l’universalità della poesia che non conosce vincolo del mezzo strumentale col quale si esprime». Ed è un sentimento di deferenza, si direbbe quasi religiosa, quello che il poeta manifesta per il suo luogo natio, a partire dalla parlata, che si sforza di trascrivere correttamente, senza mai indulgere a forme fonetiche astruse. E allorché scrive canti per musica, i suoi testi saranno comprensibili a tutti gli abruzzesi e non solo a quelli che appartengono alla zona linguistica del teramano. In tal modo e col sostegno di alcuni fra i più prestigiosi musicisti della sua epoca, non tardò ad immettersi nelle manifestazioni canore più significative della regione. In particolare, partecipò con successo alla XX maggiolata di Ortona dell’8 maggio del 1950, presentando, in coppia con Antonio Di Jorio, Canzone d’amore, un canto che i cori regionali inseriscono sempre nel loro repertorio, unitamente a La serenate de lu ‘mbriìche e Serenate ‘n cambagne. Se il fraseggio ed il tema di queste ultime due canzoni sembrano più aderenti all’immaginario abruzzese, la tonalità malinconica di Canzone d’amore è mutuata, invece, da quella napoletana. Una modalità musicale che il Maestro di Atessa poi utilizzerà soltanto per le canzoni: Core ferite su versi di Luigi Illuminati e Fijja mè, scritta interamente da lui. In tutti i canti per musica, i temi che Cameli tratta sono riconducibili allo schema della canzone popolare, con allusioni autobiografiche, sullo sfondo di scorci paesani o di paesaggi campestri, ove si intrecciano i miti della giovinezza e dell’amore, in un richiamo puntuale delle tradizioni e dei costumi abruzzesi, finanche negli stessi titoli (Serenate de magge, Frunne e fiure, La ssaldarelle, ecc.).

Sotto il profilo metrico, il poeta sfrutta la tecnica dell’anisosillabismo, in ossequio alla sensibilità del popolo che avverte, come si sa, l’isoritmia e non l’isosillabismo. Per comprendere a pieno l’operazione artistica che Guglielmo Cameli svolge nella stesura dei versi per canzoni, non si può, comunque, non tener conto di un fatto. E cioè che, nel periodo in cui il poeta vive, si assiste ad una rifioritura della canzone popolare abruzzese, il cui “battesimo” si tiene ad Ortona, il 3 maggio del 1920, in occasione della prima di una lunga serie di Maggiolate, feste canore che celebrano il felice connubio fra testo poetico e musica. In questo preciso contesto, si inserisce, allora, l’attività di “paroliere”, svolta da Guglielmo Cameli, il quale sceglie di “cantare” i sentimenti e le tradizioni della sua terra, in sodalizio con musicisti del calibro di Antonio di Jorio, che è l’animatore, per antonomasia, di quella scuola abruzzese che «porta avanti il progetto di una corroborante fusione tra i moduli della musica colta e accademica e la freschezza della musica popolare abruzzese, restituendole la dignità culturale in genere riconosciuta appieno solo ai versi delle canzoni stesse».

# di Emilio Marcone

 

 

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Informazioni su Marco Maccaroni 993 articoli
Classe 1956, innamorato di questa terra dura ma leale delle sue innevate montagne del suo verde mare sabbioso dei suoi sapori forti ma autentici, autore, nel 2014, del sito web Abruzzo Vivo

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