Don Vincenzo ci aspetta al centro della piazza di Rosciolo. Ottantanove anni e uno sguardo luminoso sotto il cappello nero, ci guida in auto lungo un breve tragitto, tra querce e fazzoletti di terra arata, attraverso la stretta valle Polcraneta fino ai piedi del monte Velino, a 1022 metri. Giungiamo alle spalle di un edificio in pietra rozza che solo un’abside poligonale decorata distingue dai casolari sparsi intorno. Di Santa Maria ci sorprende subito la facciata spoglia: una struttura a “capanna”, immersa in un ambiente agreste e rurale, lasciata per secoli all’abbandono, utilizzata, prima del suo restauro, come riparo per gli armenti e così immortalata nei diari di viaggiatori e scrittori stranieri del secolo scorso. Don Vincenzo indugia qualche minuto al centro del piazzale, poi ci indica il tetto: il colpo d’occhio è stupefacente, le falde ripetono con perfezione irreale le pendenze dei clivi del monte retrostante. Una prima suggestione, accompagnata dai particolari decorativi degli archetti ciechi dell’abside e della bifora trilobata laterale, richiami di un’arte che giunge da Est.
Con la lunga chiave in ferro, don Vincenzo ci invita a fissare gli occhi della Madonna raffigurata nell’affresco quattrocentesco del timpano: ovunque ci spostiamo all’interno del pronao, il suo sguardo sembra seguirci. Quando, spingendo l’antico portone, il parroco cita un vecchio studio su Santa Maria e sussurra: “Qui l’oriente è vicino”, il gioco delle suggestioni è completo. Neppure l’immaginazione più fervida potrebbe lasciar sperare che una piccola struttura, dall’esterno più simile a un pagliaio che ad un tempio, racchiuda un vero e proprio tesoro. In un istante ci ritroviamo immersi nel mistero di questo luogo dell’anima, che non chiede nessuno sforzo evocativo alla fantasia esoterica oggi tanto in voga. L’epigrafe, posta sul pilastro destro dell’arco del nartece, accenna a un Berardo, conte dei Marsi, benefattore della chiesa. Siamo a metà dell’XI secolo: i conti di Celano avevano stretto un forte legame con il monachesimo benedettino, e uno di loro raggiunse la reggenza dell’abbazia di Montecassino, il centro culturale dell’Occidente cristiano in strette relazioni con l’Impero d’Oriente. Qui confluivano artisti da ogni parte del Mediterraneo, e in questo intreccio di rapporti trova ragione quel mescolarsi di stili che rende unica Santa Maria in valle Polcraneta. Una seconda epigrafe sul pilastro sinistro del nartece ci presenta “Nicolò”, “per le mani” del quale “quest’opera è stata fatta”. Personaggio di cui ci resta solo il lascito artistico, nella struttura della chiese, nelle rudimentali sculture abbozzate dei capitelli, nel sarcofago posto nella navata destra dove nell’antichità erano le sue spoglie e che, ai tempi del sequestro Moro, fu profanato inspiegabilmente.
Don Vincenzo non dice oltre, ma da queste parti si narra di una parentela tra un vecchio custode di Santa Maria e uno dei membri della banda della Magliana. Nessuno sa cosa cercasse chi ruppe il sarcofago, e questa vicenda sembra ormai dimenticata. Poco di più sappiamo di Roberto e Nicodemo, la cui scuola artistica attraversò l’Abruzzo intorno al 1100 per scomparire misteriosamente meno di un secolo dopo. A Santa Maria incisero i loro nomi sullo splendido ambone, capolavoro d’arte scultorea. L’iscrizione ci è giunta monca, conservando il mistero di questi due personaggi che seppero fondere elementi orientali, bizantini e arabeggianti, con lo stile più classico dell’epoca. Così, se sulla balaustra della gradinata troviamo incisa la storia di Giona, nei bassorilievi del parapetto i riferimenti figurativi lasciano più spazio alle interpretazioni: un diacono che potrebbe essere San Giovanni o Santo Stefano, un personaggio sul trono e una danzatrice (per alcuni Erode e Salomè, per altri David che assiste alla danza sacra), un uomo che lotta con una belva armato di bastone ( Sansone o David?). Scene e simboli comunque della tradizione biblica, incorniciati in un ornato dal gusto orientale. La scalinata dell’ambone è appoggiata all’iconostasi, che nelle sculture dei plutei, nelle splendide lavorazioni delle colonne e dei capitelli, nell’unicità del coronamento ligneo giunto intatto fino a noi, conferma il forte influsso della cultura bizantina e accenna ad atmosfere di arte islamica. Ma, più di ogni altro elemento, è il ciborio a far emergere in tutta la sua forza evocativa i richiami all’arte orientale, mutuati da quello stile iraniano che, come ci ricorda don Vincenzo, influenzava gli artisti provenienti da Bisanzio. Gli architravi tondi trilobati; l’intricato labirinto dei bassorilievi in cui si intrecciano immagini zoomorfe e figure umane in abiti orientali o nude, contorte; le decorazioni dei capitelli, con volti, braccia e gambe di uomini in pose improbabili; il traforo che adorna la cupola ottagonale: tutto concorre a destare stupore e meraviglia per questo monumento che sembra “rubato” a qualche tempio d’oriente.
Tra le tante raffigurazioni pittoriche, notiamo le due crocifissioni: una in stile bizantino, che mette in risalto la sovranità di Cristo e la serenità di un dio sorridente anche nel dolore dell’ultimo sacrificio; l’altra, del trecento, in cui nel volto reclinato di un Cristo piegato sulle ginocchia emerge tutta la sofferenza umana su cui si è concentrata l’iconografia occidentale. Ancora due affreschi, una probabile santa Rosalia, figlia del conte Sinibaldo, e un san Leonardo di Noblat, riconoscibile dalla catena appesa al braccio destro, il cui culto è stato introdotto a sud Italia proprio dai Normanni, testimoniano di quell’intenso scambio di relazioni costruito dai conti dei Marsi. Ogni particolare in Santa Maria in val Polcraneta sembra colorarsi di un richiamo, un rinvio ad altre storie o a luoghi lontani. Ma più dell’analisi di ogni singolo elemento artistico, sapientemente raccontato da don Vincenzo in un libro, è la visione d’insieme a rendere palpabile quell’atmosfera magica che si lascia cogliere solo oltre le parole, nel silenzio che ci avvolge mentre camminiamo lentamente tra le colonne, sfioriamo la pietra fredda e dura dei capitelli, ci perdiamo nel seguire con lo sguardo il perfetto ordito degli arabeschi. Un’atmosfera resa ancor più emozionante da un sordo scampanellio proveniente dalla vecchia mulattiera, dal fischio dei pastori e dallo schiocco dei primi zoccoli sul selciato, che rompono il silenzio e ci invitano ad uscire fuori, per l’ultima suggestione che questa giornata ci riserva. Un gregge di pecore invade il piazzale e il prato dinanzi la chiesa, per abbeverarsi alla vasca sottostante prima di continuare la salita verso i pascoli più in alto. Il riflesso di un sole primaverile negli occhi del giovane pastore venuto dall’Est è l’immagine più vivida e struggente di una storia sempre uguale di cui questo incantevole luogo si fa da secoli testimone.
#2012 Riziero Zaccagnini
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