Un buon metodo per iniziare ad illustrare in che modo l‘Abruzzo fu percepito nel corso dell‘età moderna consiste nell‘esame della cartografia del tempo. Essa può aiutarci a comprendere come l‘erudizione coeva percepisse l‘identità locale e, nello specifico, a quale realtà territoriale facesse riferimento. Stando a quanto è emerso dalla ricognizione svolta negli archivi e nelle biblioteche provinciali e dagli studi condotti nell‘ultimo secolo, non esisterebbe alcuna produzione relativa alla rappresentazione dell‘intera regione, come anche quella riguardante le due ripartizioni amministrative del Regno, l‘Abruzzo Ultra e l‘Abruzzo Citra. Esiste, invece, una ricca documentazione relativa alle singole città e tutt‘oggi conservata nelle biblioteche e negli archivi di stato della regione, oltre che nelle raccolte private. Si tratta di mappe, piante topografiche, particolari planimetrici elaborati per lo più in funzione di specifici progetti tecnici. Quando la lente d‘ingrandimento tende ad allargarsi sul territorio adiacente può rispondere, oltre che a nuove indagini di carattere prettamente tecnico, a finalità giurisdizionali di vario genere: è questo il caso delle carte diocesane o dei documenti relativi a determinate aree feudali. Tutte queste testimonianze dimostrano che il rapporto quotidiano con lo spazio urbano, prima di tutto, e poi con il territorio limitrofo ha alimentato, nel corso dell‘età moderna, un senso di appartenenza strettamente connesso all‘identità cittadina. Esistono anche riproduzioni di carattere non prettamente tecnico: profili di città , vedute, illustrazioni che integrano gli scritti degli uomini di lettere e le relazioni dei funzionari delle corti e dei governi cittadini. Ne offre un interessante esempio un manoscritto conservato nella Biblioteca Nazionale di Napoli, redatto da un funzionario della corte farnesiana intorno al 1592. Sebastiano Marchesi, autore di una storia cittadina su Cittaducale, metteva a disposizione del duca Ranuccio II una relazione dettagliata sulla rendita fiscale di ciascuna comunità appartenente agli Stati farnesiani d‘Abruzzo e arricchiva ogni paragrafo con un‘illustrazione ad acquerello e inchiostro. Fotografando le diverse cornici urbane e riunendole in una sola raccolta, l‘erudito tratteggiava i contorni di un‘unica area che comprendeva realtà geografiche anche molto distanti tra loro: Ortona è situata sulla costa adriatica, Bacucco (oggi Arsita) e Campli sono nel Teramano, Cittaducale, Leonessa, Montereale, Borbona, Posta sono collocate nella fascia territoriale tra L‘Aquila e Rieti, mentre Penne, Abbateggio, San Valentino, Pianella si trovano nel Pescarese. Dunque, comunità lontane ma accomunate nella stessa sfera d‘influenza – quella dei Farnese – che consentiva all‘erudito di disporre le immagini in un‘unica raccolta. È, quindi, evidente che la cartografia locale preannuncia in modo chiaro a quale identità territoriale si sia rapportata l‘erudizione abruzzese in Antico Regime: la struttura policentrica dell‘Abruzzo si proietta sulla cartografia locale e le singole comunità cittadine rimangono, fino alla fine del 700 e oltre, le principali protagoniste della rappresentazione grafica. La regione è destinata ad avere un‘«identità sfuggente», segnata com‘è dall‘orografia imponente e dalla consequenziale frammentarietà sociale, economica e culturale, e l‘assenza di una produzione cartografica d‘insieme ne è la dimostrazione. La presenza di una natura così impervia non impedisce la rappresentazione congiunta di cittadine molto lontane tra loro ma, in questi casi, l‘unità è data dalla finalità giurisdizionale, capace di oltrepassare le barriere naturali e le distanze.
A tracciare i contorni dell‘Abruzzo è la cartografia di più ampio respiro, chiamata a individuare un criterio utile a costruire la geografia dell‘intera penisola a partire dalla fine del XVI secolo. Di fronte alla vasta compagine statale del Regno di Napoli i cartografi, italiani ed europei, decidono di fare riferimento alla suddivisione amministrativa del Mezzogiorno e, nel caso abruzzese, allestiscono una o più carte distinte in cui raffigurare l‘Abruzzo Ulteriore e quello Citeriore. Rappresentazioni come quella di Egnazio Danti nella Galleria Vaticana, o di Natale Bonifacio, di Gerardo Mercatore contribuiscono a fissare nella memoria culturale moderna l‘immagine variopinta di un‘«Italia delle cento città » – che poi si sarebbe proiettata, in parte, nelle vedute prospettiche di Pacichelli – e a consolidare l‘identità frammentaria di regioni come quella abruzzese. Sul finire del Cinquecento il governo napoletano incaricava Mario Cartaro e Colantonio Stigliola di redigere una carta del Reame. Essa avrebbe costituito una fonte preziosa per coloro che si apprestavano a raffigurare le regioni del Mezzogiorno. A quel disegno ufficiale si affidava anche Antonio Magini, il cui Atlante sarebbe divenuto un modello imprescindibile per la cartografia moderna, considerando che ancora nel ‗700 si riproducevano le sue opere. Nella carta dell‘«Abruzzo Citra, Et Ultra» la rappresentazione idrografica è precisa, come anche l‘ubicazione dei centri abitati. Resta, invece, approssimativa, come nelle opere dei cartografi precedenti, la raffigurazione dell‘orografia, a dimostrazione della scarsa conoscenza diretta delle aree montuose dell‘Abruzzo. Del resto, una delle principali preoccupazioni di Magini era quella di ottenere «la miglior continuatione con li stati vicini», e dunque la singola carta concorreva a rendere completa la visione complessiva del Regno, lasciando in secondo piano la riproduzione effettiva del mondo reale. Tuttavia, la difficoltà a costruire i contorni dell‘Abruzzo, come anche di altre aree della penisola, scaturiva anche dall‘influenza delle novità maturate attorno all‘idea di ―regione‖ nel panorama culturale dell‘età umanistico-rinascimentale. La riformulazione del numero delle unità regionali italiane elaborata prima da Flavio Biondo, che ne conteggiava diciotto (escludendo le terre insulari), e un secolo più tardi da Leandro Alberti, che arrivava a contarne ventidue prendendo in considerazione anche le tre isole, dimostrava l‘approdo moderno ad un concetto nuovo di regione, svincolato dai riferimenti strettamente politicoa-mministrativi e orientato principalmente verso la sfera culturale. La ―regione‖ diveniva un‘entità variabile nel tempo, esposta a considerazioni e valutazioni diverse, tanto che Biondo giungeva a scrivere «divisionis nominationisque regionum mutatio ter quaterque in aliquibus et in quibusdam pluries facta» . Il quadro storico-geografico che egli rappresentava, dell‘Italia e delle sue regioni, «si poneva al di là , non contro la realtà contemporanea: uomini, eventi, fabbriche dell‘età moderna figuravano accanto ai monumenti dell‘età classica senza alcuna riserva». La disparità evidente nell‘estensione territoriale dei diversi Stati italiani spingeva l‘umanista a considerare solo in minima parte i riferimenti politico-istituzionali a lui coevi e a disegnare da sé una «regionalizzazione culturale» della penisola in cui coesistevano elementi fisici, nessi etnico-antropologici e riferimenti agli auctores della classicità , in linea con la curiosità umanistico-rinascimentale nei confronti dell‘antico.
E infatti, opere come quella di Antonio Magini e prima ancora la carta di Egnazio Danti concorrono a testimoniare l‘interesse che gli eruditi rivolgevano all‘antichità nella prima età moderna. La riscoperta dell‘architettura e della civiltà classica, gli studi sui popoli italici spingevano i cartografi a redigere carte regionali caratterizzate da un rimando continuo all‘assetto territoriale dell‘antichità , perché si partiva dal presupposto che le fonti antiche costituissero una premessa fondamentale per la comprensione tanto del passato quanto del presente. Di conseguenza, anche la cartografia diveniva uno strumento di rievocazione del passato: accanto alle principali città venivano indicati i centri italici scomparsi – Valva, Marruvium, Buca – mentre mancava, invece, un interesse concreto per la moderna conformazione geografica. Leandro Alberti, dal canto suo, aveva aderito appieno all‘idea formulata da Biondo e aveva sottolineato anch‘egli la mutevolezza e la variabilità cui le regioni italiane erano esposte, definendo la propria descrizione il risultato di un‘analisi comparativa della geografia storica della penisola italiana in aperto confronto con i precedenti studi storicogeografici, dalla quale tendevano ad emergere le sue scelte soggettive per cui, «descritte le divisioni fatte di questa nostra Italia da gli antedetti scrittori, a me pare di seguitarli in parte, e in parte no». In Abruzzo la conformazione geografica non aveva di certo contribuito a contraddistinguere la fisionomia regionale, e le relazioni economiche e sociali che legavano le popolazioni abruzzesi a quelle adiacenti avevano reso labile il concetto di confine. Qui erano state «la geografia delle formazioni politiche, le battaglie, le pretese dinastiche, le scomposizioni e gli accorpamenti territoriali specifici» a concorrere, in buona parte, alla definizione del volto della regione. Ma la storia antica e medievale della penisola aveva dimostrato, agli occhi di Alberti, la perenne variabilità della mappatura politica del territorio italiano lungo l‘asse diacronico («ritrovo havere avuto ella [l‘Italia] diversi termini, et confini, secondo l‘occorentie dei tempi») e questa stessa natura indefinita del concetto di regione gli aveva consentito di «inseririsi criticamente in una tradizione che [andava], secondo lui, da Catone al Biondo». L‘«identità sfuggente» dell‘Abruzzo rappresentò di certo un incommodum per Flavio Biondo, per Leandro Alberti e per gli scrittori successivi, impegnati a ricostruire la mappa storico-geografica della penisola. Essa costituiva la prova evidente di regione «dinamica, mutevole a seconda dei tempi e delle esigenze», i cui confini non potevano, di conseguenza, ridursi ad elementi lineari e dovevano invece essere ricondotti a vere e proprie «zone di transizione». Nell‘introduzione alla «duodecima regione della Italia», Alberti confessava l‘enorme fatica che aveva dovuto sostenere per definire il profilo storico-geografico di questa terra: «Ristorar volendo i popoli dell‘Abruzzo (già addimandati Samnites) che sono Frentani, Caraceni, Peligni, Marrucini, Precutini, Vestini, Sanniti, et Irpini; havero maggior fatica in questa descrittione, che non ho havuto nell‘altre insino à qui». Lontano dall‘acquisire la fisionomia odierna, l‘Abruzzo moderno superava i confini della regio IV augustea e comprendeva i territori un tempo occupati dai Pretuzi nell‘adiacente regio V. Quantunque egli non rinunciasse ad indicare sistematicamente i quattro «termini» della regione, si sentiva, tuttavia, chiamato a segnalare l‘evidente contrapposizione che, proprio all‘altezza del Tronto, esplodeva nel confronto tra passato e presente, tra «i termini antichi dei territori abruzzesi già abitati da Preguntini e Sanniti, e quelli attuali del Regno di Napoli» …
Estratto da una ricerca presso UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI UDINE della dottoranda Cristina Ciccarelli
Documento completo: STORIE LOCALI NELL‘ABRUZZO DI ETÀ MODERNA (1504-1806)
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