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Il Parco Nazionale della Maiella

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Foto by ph. tripsinitaly.it

Morfologia

La montagna della Maiella è una delle massime elevazioni dell’Appennino centrale e la sua grande scarpata orientale è una delle forme tettoniche più spettacolari di tutta la catena. La scarpata è modellata sul fianco di una piega anticlinale, espressione di una sottostante faglia inversa facente parte del sistema neogenico di sovrascorrimenti a vergenza adriatica. L’alto strutturale della Maiella deriva tuttavia in parte anche dalla fisiografia dell’avanfossa, in quanto prima della fase di raccorciamento era un horst delimitato da faglie normali antitetiche. In prossimità dello sbocco a valle del grandioso canyon del Vallone di S. Spirito che incide la Maiella, esiste un fenomeno di sbarramento interpretabile come la conseguenza dell’espulsione verticale di un cuneo tettonico in prossimità della base della scarpata. In relazione ai caratteri della stretta forra che ha inciso lateralmente la “diga in roccia“, è possibile ipotizzare che l’evento tettonico che ha determinato l’espulsione del cuneo sia riferibile a un momento relativamente recente, anche se difficile da definire con precisione, del Pleistocene. Pertanto la morfostruttura della Maiella non avrebbe cessato la sua attività nel Pliocene superiore, come sostenuto dalla letteratura geologica, ma sarebbe stata attiva anche nel Quaternario.

Storia

La Majella, oltre che di natura selvaggia, è straordinariamente ricca di testimonianze storiche, archeologiche e architettoniche. Anzi, e potrebbe apparire come un paradosso, sono state proprio l’asprezza ricchezza e bellezza del paesaggio a favorire le diverse forme di insediamento umano che hanno determinato la storia del territorio. in effetti è sempre stata abitata, sin dal Paleolitico – 800.000 anni fa – quando bande di cacciatori raccoglitori, appartenenti alla specie Homo herectus, utilizzavano le risorse naturali della montagna per procurarsi cibo, attraverso la raccolta dei prodotti spontanei e la caccia dei grandi mammiferi – e materiale – selce – da cui ricavare strumenti. Ricche testimonianze di questo vasto periodo sono state rinvenute negli importanti siti di Valle Giumentina, Grotta degli Orsi e Grotta del colle.

 

 

L’inizio del Neolitico – a partire da 6.000 anni a.c. – ma soprattutto le successive età del rame, del bronzo e del ferro, segnano il passaggio dal nomadismo alla stanzialità che porta all’affermarsi delle comuni pratiche agricole, alla formazione di società politicamente organizzate e al sorgere di nuclei abitati fortificati. Di questo periodo è testimonianza, soprattutto, il villaggio di Piano d’Orta ma anche per gli usi rituali, le grotte Oscura e dei Piccioni nei pressi di Bolognano e Del Colle a Rapino e , per gli abitanti fortificati, Colle della Civita a Rapino e San Nicola a Caramanico.

I successivi periodi storici segneranno sempre di più l’affermarsi sulla Majella, di forme di economia agrosilvopastorale che, unitamente alla diffusione della presenza monastica e dell’ eremitismo, influiranno in maniera determinante sulla storia, sul paesaggio e sull’uso delle risorse naturali – disboscamenti diffusi e distruttivi per ricavare pascoli e terreni agricoli -. Innumerevoli le testimonianze al riguardo: dalle capanne a Tholos, in pietra a secco, classico insediamento agro – pastorale, simile al Nuraghe sardo o alle Castella della Corsica, diffuso in ogni angolo della Majella; agli abitanti accentrati e fortificati i Castra di Salle, Musellaro, Roccamorice, Lettomanoppello; ai diversi centri monastici fra cui San Clemente a Casauria, San Liberatore a Majella, San Salvatore a Majella, san Tommaso di Paterno, Santo Spirito a Majelle;  di diversi eremi, sovente scavati nella roccia friabile della montagna in cui, proprio a causa della natura aspra del territorio, monaci eremiti – fra cui Desiderio di Benevento poi Papa Vittore III e Pietro Angeleri di Isernia, poi Papa con il nome di Celestino V -, alla ricerca di solitudine e libertà, cercavano rifugio e meditazione per la propria elevazione spirituale – Sant’Onofrio di Serramonacesca, Santo Spirito e San Bartolomeo di Legio nei pressi di Roccamorice,  Sant’Onofrio al Morrone, San Giovanni all’Orfento. Scomparsi gli eremiti, le zone più impervie della Majella, sono state per lungo tempo dominio incontrastato di banditi e briganti, isolati o organizzati in bande, quasi sempre determinanti nelle loro azioni da profonde motivazioni politiche, sociali ed economiche.

Del fenomeno restano ancora oggi tracce significative, come le incisioni scolpite sulla roccia denominata “Tavola dei Briganti”. Il paesaggio del Parco delle Majella, il cuore stesso del Parco, è stato altresì profondamente modellato dall’uomo prima in maniera armonica e positiva – centri storici – poi in maniera selvaggia e distruttiva – lottizzazioni – in nome di un utopistico progresso che ha profondamente ferito la sacralità del paesaggio. Pregevoli testimonianze storiche negli antichi borghi di: Caramanico Terme – Chiesa romanica – gotica di  S. Maria Maggiore, e chiesa di S.Tommaso del XII sec. con architravi, rosoni e affreschi del Duecento -, Pacentro, pittoresco borgo medioevale con i resti de Castello dei Caldora – Cantelmo del XIV sec. e la quattrocentesca Chiesa di S. Maria Maggiore; Salle, con i resti del Castello di Salle; Tocco da Casauria; Pennapiedimonte; Pescocostanzo con i suoi splendidi palazzi, del ‘500 e del ‘600 e la Basilica di S. Maria del Colle, originaria dell’XI sec. ricostruita nel 1466 e ultimata alla fine del ‘600; Roccacaramanico, ormai disabitato; Guardiagrele, con la Chiesa romanica di S. Maria Maggiore dell’Xi sec. e la Chiesa di S. Francesco con portale romanico – gotico del XV sec.; Sulmona – Cattedrale, Palazzo Tabassi, Chiesa dell’Annunziata, originaria del 1320, Badia Morronese o di S. Spirito, edificata nel XIII sec. da Pietro da Morrone e, nei pressi, il Santuario di Ercole Curino risalente alla metà del I sec. a.C.

Presentazione del Parco Nazionale della Maiella di Giuseppe Di Croce

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La politica delle aree protette, che sono soprattutto aree di sublimazione dei valori naturali e dei siti nativi della diversità biologica, deve tendere sia alla riconciliazione del rapporto uomo-natura, sia, in un apparente paradosso, a creare nuove occasioni di sviluppo attraverso la protezione dell’ambiente. L’Abruzzo ha una storia di tutto rispetto nella promozione della politica di salvaguardia ambientale che ha portato alla istituzione di due nuovi Parchi Nazionali e di un parco regionale. Negli ultimi venticinque anni infatti, senza clamori e senza enfasi, e stata realizzata una discreta rete di Riserve Naturali che ha costituito la base per l’istituzione dei nuovi Parchi, dei quali le riserve talora costituiscono parte non secondaria o addirittura, come sulla Majella, formano il cuore stesso del Parco. Diversamente da altre realtà contigue, dove sono divampati contrasti e resistenze, quello della Majella è un esempio di Parco nato ed ampliato per volontà delle popolazioni locali che hanno dimostrato una maturità e una cultura altrove non riscontrate.

Ciò è frutto anche della prudenza e della saggezza di quanti hanno intuito in anticipo che la gestione delle aree protette doveva essere protesa principalmente alla salvaguardia del contesto ambientale, ma non poteva trascurare il ruolo dell’economia e dell’uomo nella politica di stabilizzazione socio-economica dei territori interessati. Ora è tempo che i prototipi di ecoeconomia sperimentati nelle riserve naturali diventino progetti operativi in tutto il Parco della Majella, una montagna abitata da gente dalla dignità forte e perciò stesso gelosa custode della propria storia, della propria cultura e delle proprie tradizioni. Questa identità così marcata, secondo il prof. Santini, viene da lontano e fonda le sue radici sulla stessa origine mitologica del nome Majella, peraltro molto controversa, giacchè i geografi antichi non amavano assegnare nomi a ciascun monte della stessa catena. Varie fonti affermano che esso abbia avuto in passato il nome di Paleno, da Giove Paleno, oppure Nicate (che alluderebbe alla bontà dei suoi prodotti metallici e botanici oppure alla sua altezza superiore a quella degli altri monti vicini), ovverosia Magella o Majella come in certe carte risalenti al XIV secolo. C’è poi una leggenda che narra che in Frigia vivevano delle guerriere gigantesche dette “magellane”; di queste, Maja, la più bella, ebbe un figlio bellissimo e gigantesco. Ferito in battaglia, la madre fuggì con lui e con le altre maiellane verso occidente dove c’era il monte Paleno ricco di erbe medicinali, di cui una in particolare che fioriva sulla cima più alta allo sciogliersi delle nevi e che era capace di guarire qualsiasi male. Quando arrivarono però trovarono il Monte Paleno ancora coperto di neve e quindi sprovvisto della pianta desiderata. II figlio di Maja morì subito dopo con grande disperazione della madre e il pianto di lei risuonò per monti e valli. Giove allora volle ricordare il giovane piantando un piccolo albero dai fiori gialli a grappolo denominandolo Majo, oggi maggiociondolo, il florentem cytisum di Virgilio.

Più tardi, quando il Majo era in fiore, i giovani ne staccavano un ramo e, nella notte di calendimaggio, lo appendevano sulla porta della donna amata che esprimeva il proprio gradimento raccogliendo o meno il ramo. Secondo la leggenda quindi il Monte Paleno fu chiamato Monte Majella in onore di Maja, divenendo poi la sua tomba e il suo tempio. Nella conformazione delle sue rocce qualcuno intravede i lineamenti giganti della donna pietrificata che guarda e protegge i figli d’Abruzzo, da cui l’appellativo comunemente usato di “Montagna Madre“. Definito anche “Padre dei monti” da Plinio il Vecchio, il massiccio della Majella e stato sempre circondato da un intenso alone di sacralità ed è indubbiamente uno dei monti più importanti del nostro Appennino per la solennità del paesaggio, per il prezioso patrimonio storico, etnico e culturale, per la notevole ricchezza biologica. La posizione geografica immersa nel Mediterraneo, le caratteristiche altitudinali (almeno trenta cime superano i 2000 metri), la tormentata orogenesi, il rigore e la mutevolezza del clima rendono questa montagna unica nel suo genere e custode di una diversità biologica, spesso allo stato di wilderness, fra le più importanti d’Europa, che annovera la presenza di elementi floristici mediterranei, alpini, balcanici, pontici, illirici, pirenaici e artici di grandissimo valore biogeografico, oltre che una fauna fra le più prestigiose e talora rare come il Lupo, l’Orso, il Camoscio, la Lontra, l’Aquila reale, il Piviere tortolino e tante altre specie importanti come il Cervo, il Capriolo, il Falco pellegrino, ecc. Ma la Majella non è solo natura. Essa è ricca anche di presenze storiche, artistiche e urbanistico-insediative di insospettabile valore culturale ed etnografico che dimostrano come essa sia stata da almeno 300.000 anni una montagna abitata e frequentata per diverse ragioni collegate alla straordinaria vicenda dell’evoluzione umana che qui ha trovato, per l’asprezza del territorio, una differenziazione lenta e riflessiva nel tempo.

Di fatto, dal Paleolitico in poi, la Majella è stata sempre abitata. Ne sono testimoni i ritrovamenti di manufatti litici in diversi siti, il più importante dei quali è quello di Valle Giumentina, una vera miniera di reperti per la conoscenza dei nostri avi. Ma i fenomeni che hanno condizionato di più la storia, la civiltà, la morfologia del paesaggio, sia naturale che agro-forestale, la localizzazione e la struttura urbanistica degli abitati nonchè i tracciati storici della viabilità di questa montagna, sono senza dubbio la pastorizia, e in misura minore l’agricoltura, oltre all’eremitismo. La pastorizia transumante, già praticata in epoca preromana e codificata nel 1477 da Alfonso l d’Aragona con l’istituzione della “Regia Dogana della mena delle pecore in Puglia”, è stata certamente l’elemento più importante che ha condizionato la geografia economica e sociale dell’Abruzzo e della Majella. La transumanza ha marcato la montagna di una impronta indelebile e si è materializzata prevalentemente negli insediamenti pastorali, le cosiddette capanne “a tholos”, nei disboscamenti diffusi e distruttivi, nel progressivo impoverimento dei pascoli che ancora oggi segnano i tratti della Majella con grande evidenza. I rifugi pastorali in particolare, oltre che marcare il paesaggio, sono testimonianza dell’antica tradizione della pastorizia transumante che ha portato l’Abruzzo a contatto diretto con le genti di Puglia, uno dei maggiori centri di costruzione e di diffusione delle capanne monocellulari in pietra a secco. L’altro fenomeno, che nel passato ha dominato con la sua storia e che oggi distingue la Majella con le sue vestigia, è senza dubbio l’eremitismo che si è riproposto per secoli con assoluta continuità di luoghi pur nel susseguirsi di epoche e nel mutare delle vicende storiche. Non vi è dubbio, ricorda il prof. De Giovanni, che la montagna abruzzese abbia rappresentato un luogo privilegiato per la vita ascetica e contemplativa di cui I’eremitismo è stato il segno più evidente fin dalle origini del movimento. La Majella, per la sua natura selvaggia, fu meta ambita degli asceti desiderosi di solitudine e di elevazione spirituale tanto da essere paragonata alla Tebaide, l’antica regione dell’Alto Egitto, nella quale, dal IV secolo, ad opera di Pacomio, si svilupparono numerosi cenobi di eremiti. II Petrarca, nel De vita solitaria, la indicava come uno di quei luoghi da cui scaturiscono le fonti della santità, domus Christi, al pari dei ruscelli e dei fiumi che sgorgano dalle montagne. Tra le sue balze sostarono e forgiarono la loro formazione spirituale Desiderio di Benevento, poi papa Vittore III, e Pietro Angeleri di Isernia prima di cingere la tiara papale col nome di Celestino V. Oltre alla Majella, già costellata di eremi e romitori, l’Angeleri amò moltissimo il Morrone che gli procurò l’appellativo di Pietro da Morrone. Sul suo esempio il movimento eremitico ebbe un impulso veramente notevole. Sulla Majella in particolare, ove preesistevano eremi benedettini come S. Liberatore a Majella di Serramonacesca, si moltiplicarono quelli celestiniani quali S. Spirito e S. Bartolomeo di Legio nei pressi di Roccamorice ove c’è anche il cenobio di S. Giorgio della Pescara, S. Nicolai e S. Giovanni di Orfento o di Monte Majella, S. Tommaso di Verano o di Paterno di Caramanico, S. Pietro di Vallebona di Manoppello, oltre ad antiche presenze monastiche o eremitiche i cui segni si colgono anche nella sacralità di molte delle grotte esistenti. La Majella per questo è un luogo unico, una vera “Montagna degli Eremiti” che non ha eguali in Europa e che potrebbe perciò essere appellata “Parco della Religione“. La Majella, terra di eremiti, di pastori e di agricoltori, è stata per lungo tempo dominio anche di banditi o di briganti che interpretarono in forma esasperata e talora cruenta il profondo malessere sociale dovuto alle condizioni di miseria e di ingiustizia in cui vivevano le masse contadine e diseredate nel Regno di Napoli. Furono i francesi, scesi in Italia meridionale nel 1799, ad adottare per primi il termine “brigant” per indicare coloro che ad essi si opponevano. Dal 1860 al 1865 il fenomeno del brigantaggio assunse proporzioni veramente vistose e reazioni altrettanto virulente in esplosioni di guerriglia non riconducibili solo ad un fatto meramente criminale, avendo assunto nel frattempo motivazioni politiche, sociali ed economiche. Esso divenne una specie di lotta contro i “galantuomini liberali”, che avevano monopolizzato il potere, alimentata dal re borbonico Francesco II, mentre il governo italiano la considerò soltanto una minaccia all’unità nazionale e come tale la affrontò esclusivamente con mezzi militari.

Del fenomeno del brigantaggio restano testimonianze significative sulla Majella, le più note delle quali sono le incisioni scolpite sulla roccia indicata come “Tavola dei Briganti”. La Majella, intrisa di storia di cultura e di ambiente, è diventata ora Parco nazionale dopo un’attesa di decenni durante i quali molto si è argomentato sul destino e sul significato delle aree protette. Dalle prime discussioni ad oggi tanto tempo è passato ed anche coloro che erano su posizioni di radicale conservazionismo si sono convertiti alla logica dell’ecosviluppo come strategia utile ad una corretta politica di conservazione ambientale. Ora il rischio è un altro: quello di far passare questa impostazione come una panacea risolutiva di tutti i problemi delle zone interne. Si rischia così di vanificare la funzione primaria delle aree protette che non è quella di produrre economia ma di difendere e conservare gli habitat in pericolo di distruzione. Bisogna dire chiaramente alla gente, senza mistificazioni di sorta, che le aree protette sono tali in quanto destinate a tutelare l’ambiente. Perciò le zone interessate devono essere assoggettate ad una disciplina chiara e specifica, strettamente riferita ai beni ed ai valori da tutelare, rigida e garantita da un’efficace vigilanza e da sanzioni severe ed adeguate. D’altro canto, la delicatezza dei territori ad alta valenza ambientate è tale che interventi non compatibili porterebbero rapidamente ad una regressione degli ecosistemi, con impatti tanto forti e visibili da diventare intollerabili e da vanificare gli obiettivi prefissi. Si andrebbe incontro in definitiva ad una perdita secca del capitale ambiente, che bloccherebbe ogni possibilità di sviluppo sostenibile. I costi necessari per queste operazioni, che in buona parte sono a carico delle popolazioni che abitano i parchi, devono essere sostenuti dalla società che è destinataria dei benefici prodotti. Per l’Abruzzo perciò, terra dei Parchi, abbiamo voluto fermamente individuare e perseguire una strategia nuova di alto profilo e dal sapore di straordinaria avventura: basare il futuro sulla valorizzazione del patrimonio ambientale, architettonico, storico e culturale attraverso un sistema di aree protette che trova legittimazione giuridica nella legge quadro statale e che trae origine e fondamento soprattutto dalla convinzione che occorre perseguire un nuovo modello di sviluppo, quello sostenibile, ove il rapporto uomo-ambiente diventi solidale e virtuoso e lo spazio antropizzato nulla tolga al valore della natura. Se oggi ci sforziamo di creare prospettive nuove per le nostre aree interne, è perchè negli ultimi decenni esse sono state abbandonate a se stesse senza prospettive e senza futuro. Basti pensare al drammatico problema dello spopolamento della maggior parte dei nostri Comuni che è solo l’effetto più vistoso, ma non l’unico e il più grave, della mancanza di sbocchi occupazionali e di valide trasformazioni dell’economia tradizionale. Da un approccio di stampo prevalentemente assistenziale che in passato ha presieduto ai modelli di intervento pubblico, volto soprattutto a sanare gli squilibri economici e sociali tra aree forti e zone montane, con il sistema delle aree protette si vuol passare ora alla pratica delle azioni di sviluppo globale ed integrato, che deve trarre origine anzitutto dalla valorizzazione delle risorse presenti e rivolgere attenzione specifica all’armonica composizione delle diverse e convergenti esigenze di ordine economico, di qualità della vita, di conservazione dell’ambiente, di valorizzazione delle tradizioni culturali, sociali ed imprenditoriali tipiche di questa montagna. Se fino a qualche anno fa sussistevano situazioni generali di grave disagio, che influivano anche sul piano dei fondamentali bisogni materiali della vita quotidiana, oggi forse la situazione, l’economia, il modo di vita della gente della Majella, si sono in qualche modo assestati. La pianificazione che si andrà ad elaborare, specialmente il Piano pluriennale economico e sociale per la promozione delle attività compatibili, previsto dalla legge, dovrà partire da queste premesse per impostare il nuovo modello di sviluppo che il Parco intende perseguire. II Piano Triennale sulle aree protette è sicuramente il primo strumento operativo di collaudo di questo ardito progetto di riequilibrio territoriale che trova sostegno anche nelle provvidenze finanziarie previste dalla Regione e che privilegiano le aree protette. Ciò è in linea con la scelta tutta politica di considerare il sistema abruzzese dei parchi uno strumento strategico capace di generare nuovi modelli di sviluppo basati sulla sostenibilità delle risorse. La Majella e gli altri Parchi andranno a costituire quanto prima l’ossatura del più ambizioso progetto APE (Appennino Parco d’Europa). L’obiettivo è quello di porre l’Abruzzo in posizione preminente nell’offerta di un turismo culturale e ambientale avanzato, ritenuto l’unica alternativa praticabile per assicurare prospettive di futuro alle popolazioni locali, soprattutto ai giovani che si sentono fortemente impegnati in questo settore. Questa montagna va capita ed è sicuramente in una maggiore sensibilità ecologica e soprattutto nell’azione dell’Ente Parco che potrà trovare la soluzione ai suoi problemi. L’intenzione è quella di puntare decisamente su una politica di sviluppo endogeno, globale ed integrato che valorizzi le risorse umane locali attraverso la gestione, la manutenzione e la fruizione dell’ambiente e del territorio, la produzione, la tutela e la commercializzazione di prodotti di qualità di cui il Parco si farà garante, l’innovazione nella gestione della piccola e media industria oltre che nella gestione associata dei servizi essenziali. Inoltre il sostegno alle attività piccolo-imprenditoriali, le agevolazioni alla pluriattività, gli incentivi ai giovani per svolgere in loco lavori a distanza (telelavoro), l’organizzazione di sportelli unici in grado di semplificare le procedure di azione amministrativa costituiranno strumenti e mezzi per incentivare le attività compatibili e scoraggiare quelle indesiderate. Su questa prospettiva l’Abruzzo si è già interrogato e si sta attrezzando per dare concretezza all’obiettivo di portare questa regione entro i circuiti internazionali attraverso le aree protette. Esso si appresta cosi ad essere la prima regione d’Italia che recepisce ciò che si fa in Europa, dopo Rio, in termini di sviluppo sostenibile e si candida a diventare il prototipo scientifico e operativo italiano nella politica ambientale.

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Credits: concapeligna.it – Il Quaternario Italian Journal of Quaternary Sciences, 17(1), 2004, 3-9 autori Ugo Sauroe Dario Zampieri – Giuseppe Di Croce – itinerariitaliani.com – olografix.org

 

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Classe 1956, innamorato di questa terra dura ma leale delle sue innevate montagne del suo verde mare sabbioso dei suoi sapori forti ma autentici, autore, nel 2014, del sito web Abruzzo Vivo

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