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Ignazio Silone vita e opere

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La vita

Secondo Tranquilli (lo pseudonimo Ignazio Silone  divenne il suo nome legale soltanto in seguito) nacque in una famiglia contadina il 1°Maggio 1900 a Pescina, una piccola località della Marsica circa sessanta chilometri da Aquila.  Il padre era un piccolo proprietario terriero; mentre la madre era una tessitrice.  Dopo aver compiuto i primi studi nella scuola elementare di Pescina, frequentò poi il liceo-ginnasio presso il seminario diocesano.  Rimasto orfano di entrambi i genitori nel 1915, in conseguenza del tremendo terremoto della Mersica (perse sia genitori che fratelli), ebbe la possibilità di proseguire gli studi liceali presso un’istituto religioso di Reggio Calabria, ma non li portò a compimento per dedicarsi all’attività politica nelle file del Partito Socialista. In quegli anni, intanto, L’Italia partecipava alla prima guerra mondiale. 

Rimasto senza famiglia, Silone va a vivere nel quartiere più povero del comune e comincia a frequentare la baracca, dove ha sede la Lega dei contadini.  Ribelle all’autorità e animato da un profondo sentimento evangelico, il giovane Silone aveva deciso infatti di dedicare la sua vita alla redenzione sociale degli umili, e tra questi i poveri e analfabeti <<cafoni>>  marsicani, veri e propri <<dannati della terra>>  costretti a subire le violenze e i soprusi di strutture sociali arcaiche ed immutabili. Ha inizio, così, il suo apprendistato di militante rivoluzionario e sotto l’influsso di Lazzaro, incarnazione del cristiano autentico, del “cafone santo”  si pone quindi dal lato di coloro che hanno fame e sete di giustizia.  Questa scelta porta Silone a prenderete posizione contro la vecchia società, perché è disgustato dai soprusi della violenza dell’ipocrisia e comprende che l’unica soluzione è quella di schierarsi a loro fianco.  Già nel 1917, a soli diciassette anni, aveva inviato alcuni articoli all’ “Avanti” , in cui denunciava le indebite appropriazioni di fondi destinati al suo paese per la ricostruzione dopo il terremoto.  Prende anche parte alle proteste contro l’entrata in guerra dell’Italia e viene processato per aver capeggiato una violenta manifestazione. 

Finita la guerra si trasferisce a Roma, dove entra a far parte della Gioventù Socialista, opponendosi al fascismo. Dopo essere stato uno dei principali esponenti ditale movimento, fu nel 1921 tra i fondatori del Partito Comunista italiano. L’anno dopo, i fascisti effettuarono la marcia su Roma, mentre Silone diventava il direttore del giornale romano “l’avanguardia”  e il redattore del giornale triestino “Il Lavoratore” .  Nel 1926, dopo la promulgazione delle leggi speciali e la soppressione di tutti i partiti ad eccezione di quello fascista, continuò a dedicarsi clandestinamente all’attività politica nonostante i rischi che ciò comportava.  Ricercato dalla polizia politica, fu costretto a fuggire dall’Italia.  Compie varie missioni all’estero, ma a causa delle persecuzioni fasciste, è costretto a vivere nella clandestinità, collaborando con Gramsci.  In questi anni, per Silone, comincia a profilarsi la crisi e nel 1930 esce dal Partito Comunista per la sua opposizione alla politica di Stalin.  Dopo alcuni periodi trascorsi in Francia e Spagna, si stabilì per un certo periodo in Unione Sovietica, dove assistette alle ultime drammatiche fasi della lotta politica all’interno del Comintern, conclusasi con la vittoria di Stalin e l’espulsione dei suoi antagonisti Trotkij e Zinonev.  È questo il periodo in cui i comunisti italiani si dividono e Togliatti espelle dal partito alcuni dirigenti, nell’illusione che la rivolta operaia contro il fascismo sia imminente e destinata alla vittoria.  Da questo momento Silone sarà un socialista cristiano, non più marxsista.  Nello stesso periodo, si compie un altro dramma nella tormentata vita dello scrittore: suo fratello più giovane, l’ultimo superstite della sua famiglia, viene arrestato ingiustamente nel 1928 con l’accusa di appartenere al Partito Comunista illegale e di essere uno degli organizzatori di un attentato a Milano.  

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Quando il fratello venne arrestato, Silone aveva già scelto la via dell’esilio in Svizzera, dove vi rimane per molti anni per proseguire all’estero la lotta antifascista.  Silone, è deciso ormai a condurre una vita da “socialista senza partito e cristiano senza chiesa”.  Maturò intorno alo 1930, dopo il suo rifiuto delle purghe staliniane in senso all’organizzazione comunista internazionale, la crisi che lo condusse fuori dal P.C.I. e insieme la sua vocazione di romanzi re che doveva divenire preminente.  Anche lo scrittore negli anni dell’esilio, rimase legato a gruppi antifascisti all’estero, occupandosi altresì dell’organizzazione in Francia in Svizzera di gruppi socialisti italiani.  Trasferitosi a Davos, in Svizzera, pubblica vari scritti degli immigrati, scrive molti articoli e saggi di interesse sul fascismo italiano.  Esordì come romanziere nel 1933 col romanzo più famoso”Fontamara”, in cui racconta la squallida vita dei <<cafoni>> di un piccolo borgo della Marsica, oppressi dalle sopraffazioni e dagli imbrogli di un potente speculatore appoggiato dalle autorità fasciste del luogo.  L’opera scritta in tedesco ma poi tradotta in ventotto lingue, ebbe un grande successo di pubblico in tutta Europa, mostrando un ritratto drammatico e autentico dell’Italia dell’epoca, al di là dell’oleografica immagine che voleva accreditarne il regime. Sin da questo primo romanzo Silone si caratterizza come autore “impegnato” in cui la dimensione etico-politica  prevale motivazioni di carattere squisitamente letterario. Lo stesso autore in un suo intervento ha messo in luce questa componente essenziale della sua opera: 

“lo scrivere non è stato, e non poteva essere per me, salvo che in qualche raro momento di grazia, un sereno godimento estetico, ma la penosa e solitaria continuazione di una lotta, dopo essermi separato da compagni assai cari. Le difficoltà con cui sono talvolta alle prese nell’ esprimermi non provengono certamente dall’inosservanza delle famose regole del bello scrivere, ma da una coscienza che stenta a rimarginare alcune nascoste ferite, forse inguaribili.” 

coscienza

In Fontamara incontriamo il primo eroe anticonformista di Silone, Bernardo Viola, sconfitto nel suo tentativo di cambiare le cose e pronto a scegliere volontariamente la via del carcere pur di rivendicare in questa maniera paradossale la sua libertà. E’ il romanzo più noto e significativo di Silone ma verrà pubblicato in Italia solo nel 1949, dopo avere già ottenuto all’estero alti consensi. Le vicende narrate, che si svolgono in un villaggio montano della Marsica , rappresentano l’eterna lotta tra i contadini poveri (i disperati “cafoni”) e il potere, detenuto adesso dai fascisti, nuovi padroni e oppressori dai quali difendersi. Anche se non mancano elementi di carattere simbolico come l’acqua, che i contadini sono costretti a proteggere dalle ripetute espropriazioni, l’opera si colloca all’interno di un filone di narrativa impegnata e “realistica”, che esprime una forte carica di indignazione civile e morale. Dopo Bernardo Viola sarà il turno di Pietro Spina, il carismatico protagonista dei due successivi romanzi, Vino e pane e Il seme sotto la neve, autentica opera “tolstojana” della lotta per l’affermazione della giustizia e la difesa degli umili. Allontanatosi definitivamente dal comunismo e dall’idea marxista, Silone manifesta in questi due romanzi la “convinzione dell’identità, alla radice, di socialismo e cristianesimo come sentimento elementare di fraternità e istintivo attaccamento alla povera gente”. Questa volontà di privilegiare gli aspetti sociali e libertari della religione cristiana, radicalmente antitetica alle posizioni della “Chiesa ufficiale”, rappresenta l’altro aspettto della  coraggiosa scelta anticonformista di Silone, che scontò la sua indipendenza del pensiero sul completo isolamento nella vita politica e culturale italiana del secondo dopoguerra. Per tale motivo egli amava definirsi “un socialista senza partito e un cristiano senza chiesa”. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, Silone ritornò all’attività politica, rivestendo un ruolo di primo piano nell’organizzazione clandestina antifascista all’estero.  Rientrato in Italia nel 1944, fu il direttore del quotidiano socialista “Avanti” e deputato alla costituente. Nel 1948, però, si allontanò definitivamente dalla politica per seguire con maggiore libertà la sua vocazione di scrittore.  Nacquero così “Una manciata di more” (1952), drammatica testimonianza della parallela crisi spirituale di un uomo politico e di un uomo di chiesa, “Il segreto di Luca” (1956) nuova apologia della libertà di coscienza nei confronti del conformismo imperante e “La volpe e le camelie” (1960), storia di alcuni esuli italiani nel Canton Ticino insediati dalle attività spionistiche della polizia spionistica fascista. In quest’ultima opera, tuttavia, non assistiamo ” a una meccanica spartizioni tra buoni e cattivi, che anzi ogni filo della vicenda converge in un epilogo inteso a ravvisare, pietosamente, una comune umanità di perseguitati e persecutori; al riscatto, attraverso la morte di colui che impersona lo spionaggio persecutorio. La compassione che sostituisce all’ira: il senso profondo della storia narrata in “La volpe e le camelie” è in questo cristiano sentimento di pietà che lega l’uno all’altro i personaggi, siano o no dalla parte dell’autore”. Il momento culminante della testimonianza ideologica e cristiana di Silone è rappresentato dall’opera teatrale  “L’avventura di un povero cristiano” (1968), in cui viene rappresentata la tormentata e sofferta esperienza del mistico abruzzese medievale Pietro Angelerio dal Morrone, che divenuto papa con il nome di Celestino V si rifiuta di sacrificare la propria integrità spirituale ai compromessi della sua funzione istituzionale: 

“Per ciò che mi riguarda, sento che, se cominciassi a prediligere il cavallo all’asino, le belle vesti di seta al panno ruvido, la tavola riccamente imbandita all’umile desco senza tovaglia, finirei col pensare e sentire che quelli che vanno a cavallo, vivono nei salotti banchettano. Ora, per conto mio non penso che un’autorità religiosa abbia assolutamente bisogno di lusso per ispirare rispetto. Comunque, anche nella nuova condizione, io non intendo separarmi dal modo di vivere della povera gente, a cui appartengo”. 

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Disgustato dagli intrighi e dalle compromissioni tra l’istituzione ecclesiastica e il potere politico, egli alla fine compie il “gran rifiuto”, dimettendosi dal pontificato. Tale scelta, che all’epoca venne disprezzata da Dante Alighieri come manifestazione di colpevole ignavia, viene invece approvata da Silone, che vede in essa una coraggiosa affermazione della superiorità degli ideali alle istituzioni. In questo senso “L’avventura di un povero cristiano” è strettamente legata al saggio “L’uscita di sicurezza” ove Silone spiegò le motivazioni che lo indussero ad abbandonare il comunismo ormai in preda alla degenerazione stalinista. La costante preoccupazione di carattere morale che percorre la narrativa siloniana, ha spinto la maggior parte dei critici a privilegiare in essa l’aspetto contenutistico a scapito di quello formale,  ritenuto a torto meno meritevole di interesse.  In realtà lo stile di Silone, è il frutto di un’attenta ricerca stilistica tesa a conciliare, anche a livello linguistico, l’espressione di alte idealità politiche e religiose con l’ambientazione prevalentemente regionalistica dei romanzi, che hanno di solito come protagonisti degli umili contadini abruzzesi. Negli ultimi anni della sua vita di scrittore si dedicò ancora alla narrativa con il romanzo “Severina” (1981) e alla saggistica con le “Memorie dal carcere svizzero” (1979). Nel 1978, dopo una lunga malattia,Silone muore in una clinica di Ginevra, fulminato da un’attacco celebrale. Viene sepolto a Piscina dei Marsi, “ai piedi del vecchio campanile di San Bernardo”, senza epigrafe sulla tomba, come lui volle.

Il suo pensiero politico

Dalla scelta del socialismo avvenuta a 18 anni in piena guerra, mentre lo scrittore ancora studente liceale,   sino alla sua uscita nel 1927 dal movimento comunista. Si trattò in partenza di scelta pre- ideologica, dettata soprattutto da un impeto di ribellione contro la situazione feudale nella quale versavano i contadini del Fucino, contro l’ipocrisia delle classi dirigenti e delle strutture dello Stato « liberale », ma soprattutto della constatazione di « un contrasto stridente, incomprensibile, quasi assurdo », tra la vita privata e familiare, prevalentemente morigerata e onesta, e i rapporti sociali, « assai spesso rozzi, odiosi, falsi ».  Al fondo della vocazione del rivoluzionario comunista, era, come si è visto, un’angoscia e una ribellione che si proiettarono successivamente nell’azione politica, nell’organizzazione, nella lotta contro il fascismo in Italia e in Europa. Alla « rivoluzione » velleitaria progettata insieme a qualche altro ragazzo nel paese del Fucino, per uscire dal conformismo e forse dalla noia di una provincia meridionale tra le piú misere e arretrate, si sovrappose l’ideologia razionale del marxismo: ormai il giovane si era scelta la vocazione di « ribelle ». Silone si domanda « per quale destino o virtú o nevrosi a una certa età si compie la grave scelta»:   Forse nessuno lo sa. Anche la confessione piú approfondita diventa, a un certo punto, semplice constatazione o descrizione, non risposta. Ognuno, che abbia seriamente riflettuto su se stesso e sugli altri, sa quanto certe deliberazioni siano segrete, e certe vocazioni misteriose e incontrollabili. Vi era nella n~ìa ribellione un punto in cui il rifiuto e l’amore coincidevano: sia i fatti che giustificavano l’indignazione, sia i motivi morali che l’esigevano, mi erano dati dalla contrada nativa. Il passo dalla rassegnazione alla rivolta era brevissimo: bastava applicare alla società i principi ritenuti validi per la vita privata. Cosf mi spiego anche perché tutto quello che finora m’è avvenuto di scrivere, e probabilmente tutto quello che ancora scriverò, benché io abbia anche viaggiato e vissuto a lungo all’estero, si riferisce unicamente a quella parte della contrada che con lo sguardo si poteva abbracciare dalla casa in cui nacqui, e che non misura piú di trenta o quaranta chilometri in un senso e nell’altro.  Se questo era stato l’itinerario di Silone verso il socialismo e il comunismo, l’uscita dal movimento comunista mondiale venne dettata da un disagio e da un dissidio, morale prima che politico, dall’impossibilità di coesistere con personaggi pronti ad asservirsi al potere delle maggioranze artificiosamente create dai sistemi di quel « centralismo democratico » che tutto è fuorché democratico, e che può diventare, in una società fortemente dogmatizzata, la fonte di qualunque sopruso.   Le polemiche che seguirono la pubblicazione del saggio di Silone in un volume che raccoglie anche altre testimonianze di ex comunisti, hanno fatto conoscere le vicende delle famose riunioni dell’Internazionale comunista del 1927, e lo stesso Togliatti, che aveva condiviso in un primo tempo la posizione di Silone, passando dall’altra parte dopo la definitiva vittoria delle tesi staliniane, ne riconobbe l’obiettività, il che ci consente di non riportarne le fasi. 

dittatori

Silone è stato uno dei primi, all’interno del movimento comunista mondiale, a rendersi conto di come la << mostruosa ambiguità del comunismo >> rispecchiasse allora in larga misura_la diversità dei comunisti rispetto al potere << senza legittimare la conclusione ch’esso fosse tutto in un senso in Russia e interamente l’ opposto altrove >> e ne è la controprova il fatto che dovunque un regime comunista sia riuscito ad impiantarsi, esso si è concretato negli stessi modi e nelle stesse forme: la dittatura del partito unico, al cui interno si è impadronito di tutte le leve un piccolo gruppo di satrapi, spesso con ferocissime ed ermetiche lotte tra gli stessi suoi componenti, dalle quali è esclusa la stessa base popolare del partito e del paese, e che si concludono con grandi processi a carico di vecchi e a volte gloriosi militanti; l’instaurazione di una polizia politica e di una polizia ideologica, il controllo della cultura e dei mezzi d’espressione, la storìa riscritta ad ogni mutamento del gruppo dirigente e secondo le esigenze di situazioni politiche, contingenti, la sottoposizione delle classi lavoratrici ad una politica di potenza, anche contro gli interessi e le aspirazioni , dei lavoratori stessi.  Il merito della polemica siloniana è stato quello di aver demistificato, assai prima dì ogni revisione ufficiale e di ogni <<disgelo >>, la mitologia del partito infallibile e di avere indicato i delitti, assai più che gli << errori >>, dello stalinismo, nonché quelli sia pure minori dei suoi successori, i deteriori risultati di una rivoluzione « permanente » che non ha piú nulla da offrire agli uomini del nostro tempo. Ma soprattutto dobbiamo esser grati a Silone di aver saputo scoprire e tradurre in termini di fantasia l’angoscia profonda che sentiamo animare gli uomini migliori del socialismo e talvolta dello stesso comunismo di fronte alle contraddizioni ormai storiche del marxismo tradotte in sistema di governo. Silone è dei pochissimi tra quelli che, usciti dal partito comunista alla vigilia degli anni trenta, abbiano saputo tener fede alla loro vocazione socialista e antifascista, nel senso di quell’antifascismo perenne che non si risolve nella pura negatività, e la cui polemica non si è mai chiusa nello schematismo di un anticomunismo programmatico. 

Tra i fondatori del PCI ben presto attivista clandestino a fianco Gramsci, dopo una fertile esperienza giornalistica qauale direttore del settimanale « L’Avanguardia » e redattore del « Lavoratore » di Trieste.   Quando tutto autorizzava a credere che la sua scelta per l’attività politica si stesse concretizzando in una sicura carriera di militante, ecco giungere la sua decisione   peraltro maturata a lungo – di dimettersi dal Partito. E questo in eslio, lontano dalla sua gente e dalla sua terra, nel periodo in cui il regime fascista infieriva con maggiore crudezza e violenza.  E’ già stato detto e scritto da molti: uscire dal Partito Comunista non è come allontanarsi da qualsiasi altro partito o movimento politico come per un sacerdote abbandonare l’abito talare, sempre che la sua vocazione iniziale sia stata autentica. Perché nell’uno e nell’altro caso  è necessario parlare di vocazione; per questo la  condizione dell’ex comunista viene sovente accomunata a quella dell’ex prete.  Ci si trova coinvolti in un esame di coscienza che non chiama in causa soltanto il   significato dell’esperienza di cui si è stati protagonisti ma anche la propria esistenza privata, di uomo che vive in una comunità sociale, politica o religiosa, condividendone le istanze e le aspirazioni, i propositi e le speranze, i sacrifici ed i programmi, e che, quindi, deve rispondere del proprio gesto agli altri oltre che a sé stesso.  Ora, Silone era ben lontano dall’aver tradito i suoi « cafoni », dall’aver rinunciato alla lotta in nome della causa per cui essi continuavano a penare ed a sopravvivere, ma occorreva dimostrarlo in qualche modo, confermare loro quella fiducia che più o meno consapevolmente avevano riposta in lui. Ed è proprio tenendo presenti tali esigenze essenzialmente morali, che s’accingeva a proseguire isolatamente,come scrittore, la propria battaglia, sempre più convinto, ormai, della inconciliabilità di certi termini e concetti quali organizzazione e libertà, dogma e verità.

La morte

Erano le 4:15 del 22 agosto del 1978 quando il suo cuore smise di battere. Com’egli aveva chiesto, accanto al suo corpo ormai privo di vita, Darina Elisabeth Laracy, sua moglie, recitò il Pater Noster.   Si concludeva così, nella stanza numero 52, al secondo piano della Clinique Génerale di Ginevra, in Svizzera nella quale da cinque mesi era ricoverato, l’avventura umana d’Ignazio Silone.   Sullo scrittoio, accanto al suo letto, erano i fogli sui quali stava scrivendo Severina, l’ultimo romanzo incompiuto.   Aveva settantotto anni, tre mesi e ventidue giorni.   La crisi celebrale che doveva condurlo alla morte era sopraggiunta all’improvviso, quattro giorni prima, mentre il sole, lentamente, stava tramontando all’orizzonte.  Racconterà Darina Laracy: “Ad alta voce, molto chiaramente, scandendo le parole egli disse: Maintenant c’est fini. Tout est fini.   Je meurs’. Poi accostò le mani alle tempie e gemette quattro volte   ‘Ohh-Ohh-Ohh-Ohh’.   Quindi chiuse gli occhi e si afflosciò nella poltrona.  Lo chiamai disperatamente ma non reagiva. Incredula, dovetti credere alle sue parole.   Ignazio Silone era riuscito, con uno sforzo supremo, a realizzare il suo desiderio: morire con dignità e consapevolezza. Che in punto di morte abbia parlato una lingua non sua fu un fenomeno, mi disse il medico, unico nella sua esperienza”.  Adempiendo ad una sua specifica richiesta, il corpo di Ignazio Silone fu cremato prima di essere sepolto nel cimitero di Piscina, il paese della Marsica in cui era nato, ” ai piedi del vecchio campanile di San Bernardo, con una croce di ferro appoggiata al muro e la vista del Fucino in lontananza”.   Quella che segue è la storia di Ignazio Silone, del suo amore per la libertà, della sua passione civile, della sua fede nella Giustizia, della sua lotta per la Verità, dei tormenti, delle sofferenze, del travagliato tragitto che egli compì lungo tre quarti di questo nostro secolo difficile.

Il testamento

Testamento spirituale di Ignazio Silone può essere considerato quello ritrovato nella sua scrivania, nell’aprile del 1977, dalla moglie Darina   ( in una busta a lei indirizzata ) che lo pubblicò in appendice a Severina.  Nello scritto ( che Darina fa risalire al periodo 1963-1966 ) è detto:       ” ( Credo ) Spero di essere spoglio d’ogni rispetto umano e d’ogni altro riguardo di opportunità, mentre dichiaro che non desidero alcuna cerimonia religiosa, né al momento della mia morte, né dopo.  E’ una decisione triste e serena, seriamente meditata.  Spero di non ferire e di non deludere alcuna persona che mi ami.   Mi pare di avere espresso a varie riprese, con sincerità, tutto quello che sento di dovere a Cristo e al suo insegnamento.   Riconosco che, inizialmente, m’allontanò da lui l’egoismo in tutte le sue forme, dalla vanità  alla sensualità. Forse la privazione precoce della famiglia, le infermità fisiche, la fame, alcune predisposizioni naturali all’angoscia e alla disperazione, facilitarono i miei errori.   Devo però a Cristo e al suo insegnamento, di essermi ripreso, anche standomene esteriormente lontano. Mi è capitato alcune volte, in circostanze penose, di mettermi in ginocchio, nella mia stanza, semplicemente, senza dire nulla, solo con un ( forte ) sentimento d’abbandono; un paio di volte ho recitato il Pater noster; un paio di volte ricordo di essermi fatto il segno della Croce.  Ma il ” ritorno ” non è stato possibile, neanche dopo gli “aggiornament ” del recente Concilio. La spiegazione del mancato ritorno che ne ho dato, è sincera.  Mi sembra che sulle verità cristiane essenziali si è sovrapposto nel corso dei secoli un’elaborazione teologica e liturgica d’origine storica che le ha rese irriconoscibili.   Il cristianesimo ufficiale è diventato un’ideologia. Solo facendo violenza su me stesso, potrei dichiarare di accettarlo; ma sarei in mala fede “.  Nel testamento, datato 9 giugno 1970, Silone lascia erede di ogni suo bene la moglie Darina. Aggiunge disposizioni particolari in tre allegati.   Nel primo da disposizioni sulla sua sepoltura; nel secondo lascia ” un tangibile segno di ricordo ” a Gabriella Maier, Antonietta Leggeri, Romolo Tranquilli fu Pomponio, Valeria Tranquilli fu Pomponio; Luce D’Eramo; nel terzo da disposizioni sul suo archivio e si dichiara decisamente contrario alla pubblicazione di lettereaventi carattere puramente personale e di manoscritti inediti o semplici note.

  Le opere

Si può parlare dei romanzi scritti da Ignazio Silone negli anni dell’esilio, dopo la sua uscita dal partito comunista, come se essi fossero soltanto il frutto della delusione, della solitudine. Pensiamo che la separazione dal partito Comunista sia stata in Silone soltanto l’occasione di una scoperta, quella di una vocazione che era rimasta compressa dall’attività politica, ma che in fondo traeva vita dalla stessa origine: l’appassionata solidarietà di un giovane intellettuale del Sud italiano per la condizione umana della sua gente e soprattutto il sentimento profondo di una rivolta dell’uomo in quanto uomo. L’uscita dal partito comunista non segnava, infatti, per Silone, come per tanti altri che si erano trovati nella sua stessa situazione, un fallimento come uomo e rivoluzionario. La sua rivolta rimaneva integra, anche se risaliva in primo piano un suo contenuto religioso, dal quale in ogni modo il passaggio attraverso l’ideologia aveva espunto le ragioni della fede: la religiosità di Silone rimane una religiosità laica, immanentistica.  Possiamo notare nelle sue opere uno svolgersi della propria narrativa; da “Fontamara” a “Vino e Pane”, a “Il seme sotto la neve”: il primo romanzo è una narrazione corale, un vilento affresco di vita popolare nel quale è trasfusa tutta la passione politico-sociale di Silone, la sua ribellione contro un certo tipo di società costituita. Nei romanzi successivi la sua vicenda personale si trasfonde nell’uno o nell’altro dei personaggi di primo piano e principalmente in Pietro Spina, il rivoluzionario di origine borghese, con una vocazione religiosa che non si smentisce mai, anche se non si traduce più in una fede, che coinvolga, bene o male, il suo mondo borghese nella propria vicenda, sia pure con personaggi a volte emblematici che sono la proiezione di situazioni spirituali e ideali dello scrittore, o di una sua personale vicenda. Il popolo contadino è l’unico vero protagonista di “Fontamara” mentre gli altri successivi romanzi hanno protagonisti e personaggi che si staccano dal grande sfondo della vita popolare.

Il problema letterario che pone l’opera di Silone, al di là della valutazione estetica dell’opera come fatto d’arte, sembra riassumersi nella determinazione della preponderanza o meno dell’imperativo morale e civile. In altre parole, fino a che punto il mondo creato dalla fantasia di Silone abbia soggiaciuto ad una funzione strumentale rispetto allo scopo etico e politico di denunciare e testimoniare una condizione dell’uomo e di combattere una battaglia.  Chi conosce l’opera di Silone, compresa la sua folta attività pubblicistica, sa che questo scopo è considerato dallo scrittore come il più nobile e alto, tale da condizionare, religiosamente, non solo la vita dell’uomo ma anche quelle categorie letterarie che la storia ci ha tramandato come sovrane. Esiste in realtà, per Silone, un’azione politica che può esplicarsi anche letterariamente ed è quella che poggiando su un intrepido sentimento morale sceglie soprattutto i moduli saggistici dell’indagine e della denuncia, li isola oppure li cala nella narrativa, profondendo in essi il calore che normalmente una cultura avvezza per secoli al primato dell’invenzione e del lirismo riserva a quel frutto ineffabile che è la poesia.  I romanzi di Silone sono innanzi tutto difficilmente collocabili in seno alle correnti etterarie tradizionali. La linea in cui meglio sembra possano innestarsi è quella di Alvaro di Jovine. Ma è anche evidente che si staccano da ogni retroterra, pur remoto, di meridionalismo più o meno tinto di colori veristici, o qua e là lo sfiorano, ma stemperandosi piuttosto in risucchi che sembrano condurre ad un generico naturalismo ottocentesco. [ … ] Del resto Silone, con la perentorietà che lo distingue, fu molto esplicito sulle difficoltà d’espressione e sulle regole del bello scrivere in un brano, in parte già citato, di Uscita di sicurezza, che può essere accolto come basilare dichiarazione di poetica.  Egli parlò non solo della sua «assoluta necessità di testimoniare» ma anche del «bisogno inderogabile» di liberarsi da una «ossessione» e «di affermare il senso e i limiti di una dolorosa ma definitiva rottura». Si tratta, infatti, tutt’assieme, dell’imperativo morale che guida la sua letteratura e che esilia o supera le soluzioni formali che la narrativa, per norma intrinseca, richiederebbe.  Nessun «sereno godimento estetico» infatti, quel godimento tutto romantico della nativa espressione, animata dagli antichi demoni dell’invenzione e della fantasia, ma la faticosa, ogni momento recuperata e richiamata, urgenza della «testimonianza», la verità insomma, storicamente perseguibile, di una condizione umana, di fatti accaduti, di imperdonabili ingiustizie sempre incombenti. Da cui le rotture nella narrazione, ricondotta ogni volta all’urgenza di quella verità, non importa se con mutamenti strutturali, deviazioni stilistiche o moduli diversi.  Ora possiamo passare ad esaminare più nel dettaglio l’opera di Silone. Moltissimi dei tanti lavori dello scrittore abruzzese meriterebbero di essere esaminati con attenzione, ma, mi limiterò ad analizzarne solo i principali, omettendo estesi riassunti delle trame delle opere in esame.                      

–  La volpe e le camiele

–  Il seme sotto la neve

–  Una manciata di more

–  Il segreto di Luca

–  L’avventura di un povero cristiano

–  La scuola dei dittatori

–  Esami di coscienza

–  Uscita di sicurezza

Libri

Fontamara

Prima edizione nella traduzione tedesca di Nettie Sutro – Verlag Operchtund Helbling ( Zurigo 1933 ); ristampa della stessa traduzione fuori commercio esclusivamente per i soci della ghilda Universum Bucherei ( Basilea 1934 ). Prima edizione originale italiana dell’emigrazione ( Nuove edizioni italiane, Parigi-Zurigo 1934 ). Prima edizione italiana in Italia: Roma, Faro, 1947; Milano, Mondadori, << Medusa >>, 1949; ristampe 1951, 1953; 1958, << Narratori italiani >>.     

fontamaraFontamara, pubblicata a Zurigo, in tedesco, nel 1933, è una delle più clamorose opere di questo secolo. Il romanzo di Ignazio Silone, conosciuto in tutto il mondo, è ignorato in patria per vent’anni. Narra la storia di un paese della Marsica, scelto come simbolo dell’universo contadino. Nel libro vi è la lotta di Silone contro l’ingiustizia e gli abusi del potere istituzionale, fra i “cafoni” e i borghesi e la sua funzione è sia di denuncia per l’oppressione e i soprusi subiti dai contadini abruzzesi, sia di auspicio per la formazione di una coscienza sociale senza rassegnazioni. Nel racconto, le catastrofi naturali e le ingiustizie diventano così antiche da sembrare un’eredità dei padri e della terra. Ogni trasformazione tecnologica e sociale del mondo, oltre il confine di quei monti, viene vista dai “cafoni” di Silone come uno spettacolo da osservare. Fontamara diventa la storia corale degli emarginati, visti nel momento in cui rifiutano la fissità della loro condizione ed entrano in conflitto con la “società degli integrati”, ossia quella fascista. Il portavoce di questa nuova coscienza è il “cafone” Berardo Viola, trascinato nella lotta, per raggiungere la fratellanza evangelica. La sua morte è il sacrificio necessario per propagare la fede e la giustizia che i Fontamaresi raccolgono per chiedersi insieme “che fare?”. Silone nell’introdurre il romanzo dice che racconterà strani fatti che si svolsero nel corso di un’estate a Fontamara. Fontamara somiglia a ogni villaggio meridionale,che sia un po’ fuori mano, fuori dalle vie del traffico, quindi un po’ più arretrato e misero degli altri. Silone ha però dato questo nome a un antico luogo di contadini poveri situato nella Marsica, a settentrione del lago di Fucino, nell’interno di una valle. Allo stesso modo, i contadini poveri, i cafoni, si somigliano in tutti i paesi del mondo, eppure non si sono ancora visti due poveri in tutto identici. A Fontamara prima veniva la semina, poi l’insolfatura, poi la mietitura e poi la vendemmia e nessuno avrebbe mai pensato che quell’antico modo di vivere potesse cambiare. La scala sociale non conosce a Fontamara che due pioli: la condizione dei cafoni e, un pochino più su, quella dei piccoli proprietari. I più fortunati tra i cafoni di Fontamara possiedono un asino o a volte un mulo. Arrivati all’autunno, dopo aver pagato i debiti dell’anno precedente, essi devono cercare in prestito cibo per non morire di fame nell’inverno. L’opera racconta che, nel giugno dell’anno precedente a quello della pubblicazione del libro, Fontamara rimase per la prima volta senza illuminazione elettrica, così avvenne nei mesi seguenti, finchè il paese si riabituò al regime del chiaro di luna. I vecchi di Fontamara sapevano che la luce elettrica e le sigarette erano novità che erano state portate dai piemontesi, e che, poco dopo, gli stessi piemontesi si erano riprese. La luce elettrica nessuno infatti la pagava, poiché mancava il denaro e il cursore comunale non si era neppure presentato, come ogni anno, con le fatture e gli arretrati, fogli che i Fontamaresi usavano per usi domestici. L’ultima volta, che il cursore era andato a Fontamara, per poco non vi lasciava la pelle. La luce quindi in giugno venne tolta e tutto il paese si sconvolse, poiché la miseria stava per diventare sempre più nera. Intanto gli uomini si radunarono davanti alla cantina del paese e videro arrivare verso di loro un forestiero, il Cav. Pelino, con una bicicletta e pensarono che si trattasse di una nuova tassa. L’uomo spiegò che non si trattava di nuove tasse, ma servivano solo delle firme da mandare al Governo. Il Cav. Pelino cercò pretesti per discutere, ma i Fontamaresi non risposero e si burlarono di lui. Lo straniero partì con la sua bicicletta, urlando che il Governo si sarebbe occupato di loro e che presto avrebbero avuto sue notizie. I Fontamaresi, però, non fecero caso alle parole del Cav. Pelino, si diedero la buona notte e si avviarono verso casa, mentre Berardo, uno degli amici, continuò il giro del paese. Il giorno dopo, all’alba, tutta Fontamara fu in subbuglio per un malinteso. All’entrata del paese, sotto una macera di sassi, sgorgava una polla d’acqua, simile a una pozzanghera, dove i Fontamaresi avevano sempre tratto l’acqua per irrigare i campi che erano la magra ricchezza del villaggio. La mattina del 2 giugno, i cafoni scesero la collina per andare al lavoro e s’incontrarono con un gruppo di cantonieri, arrivati a Fontamara con pale e picconi per deviare l’acqua nei campi del ricco don Carlo Magna. Subito i cafoni pensarono a una burla, poiché gli abitanti del capoluogo non lasciavano mai passare le occasioni per beffarsi dei Fontamaresi. Un ragazzo tornò allora in paese ad avvertire gli altri, ma gli uomini erano al lavoro e quindi dovette chiamare le donne. Queste si radunarono e quando arrivarono dai cantonieri, questi si spaventarono e scapparono. Le donne proseguirono, poi, verso il capoluogo, dove arrivarono a metà giornata, stanche e impolverate. Intanto, davanti al municipio, le guardie cominciarono a gridare di non farle entrare, poiché avrebbero solo portato pidocchi. Queste affermazioni fecero scoppiare risate generali e burla verso le povere donne, addirittura anche la fontana del paese si burlò di loro e appena si avvicinavano questa smetteva di far scorrere acqua. I carabinieri le accompagnarono poi a casa del Podestà appena eletto: era l’impresario che era arrivato nel paese da poco e si era impadronito di ogni affare importante. Arrivati alla villa, la moglie del podestà disse che suo marito era sul cantiere con gli operai e quindi le donne si diressero là. Ma, arrivate al cantiere, non lo trovarono e allora decisero di andare da Don Carlo Magna, ma seppero che le sue terre erano anche state acquistate dall’impresario. Camminarono molto e giunsero di nuovo davanti alla casa dell’impresario, dove vi era in corso un ricevimento per la nuova nomina a Podestà e chiesero di essere ascoltate circa l’acqua del ruscello. Dopo varie discussioni il segretario del comune decise che tre quarti dell’acqua dovessero andare ai Fontamaresi e i rimanenti tre quarti all’impresario. Nei giorni seguenti i cantonieri ripresero i lavori, mentre nessuno riusciva a capire che proporzione potesse essere quella dei tre quarti e tre quarti. Questa disputa valse l’onore della visita di Don Abbacchio, il canonico di Fontamara. Arrivò su una biga tirata da un bel cavallo, che apparteneva all’impresario, e quindi i Fontamaresi capirono che anche il canonico si stava burlando di loro. Al tempo dell’irrigazione mancavano ancora molte settimane, ma le zuffe e le discussioni per l’acqua erano già iniziate. Intanto arrivò la decisione di Berardo Viola, cafone rimasto senza terra, di partire e far fortuna in America, poiché ormai si riteneva tradito da tutti. L’unico a incoraggiarlo a partire era Don Circostanza, antico curato del paese, che pensava che se l’uomo fosse rimasto a Fontamara, sarebbe stato arrestato. Il giorno della partenza arrivò, ma, a causa di una nuova legge, fu sospesa tutta l’emigrazione e così Berardo rimase a Fontamara come un cane sciolto e sofferente. Berardo voleva la terra a tutti i costi, gli spettava di diritto come cafone, ma fu destinato a non averne mai. L’uomo doveva anche sposarsi, ma, non potendo partire, non osava presentarsi alla fidanzata. Trovò lavoro da bracciante fuori da Fontamara e faticava parecchio, ma un bel giorno Berardo dovette tornare a Fontamara poiché era stata istituita una nuova tessera per andare a Roma, di cui era sprovvisto, poiché era a pagamento. L’amarezza di Fontamara aumentò con l’arrivo di Innocenzo La Legge che assicurò che non si trattava di una nuova tassa, ma era lì per parlare del Cav. Pelino, che aveva riferito al Governo ogni discorso fatto a Fontamara la sera della sua visita. Parlò anche dei vari provvedimenti che il governo aveva assunto contro i Fontamaresi e che venivano messi in pratica dal giorno stesso. Nel paese, intanto, cominciavano le discussioni con Innocenzo La Legge da parte di Berardo e il vecchio Baldissera. Verso la fine di giugno, si sparse la voce che i rappresentanti dei cafoni della Marsica stavano per essere convocati ad Avezzano per ascoltare le decisioni del nuovo Governo di Roma sulla questione del Fucino, in quell’occasione si doveva discutere sul problema del lago nella Marsica. Una domenica mattina arrivò a Fontamara un camion che, gratis, portava i cafoni ad Avezzano ed era proprio questa mancata richiesta di pagamento che non piaceva ai Fontamaresi, sotto doveva esserci l’inganno. Salirono tutti sul camion, portando con sè lo stendardo di San Rocco, ma, a causa di questo, dovettero discutere all’entrata di Avezzano con un gruppo di giovanotti, che volevano fosse loro consegnato lo stendardo. Consegnarono la bandiera ai carabinieri e furono condotti in una grande piazza e fatti sedere in terra. Dopo un’ora di attesa, dovettero alzarsi in piedi e gridare inni ai podestà, mentre la piazza fu attraversata da un’automobile, seguita da quattro uomini in bicicletta. Poi furono fatti risedere, ma poco dopo i carabinieri annunciarono che i cafoni potevano andarsene. Berardo, non persuaso, andò davanti al portone del palazzo tutto imbandierato e volle parlare con il ministro per levarsi la curiosità di sapere cosa era successo. Ci furono molte liti con i carabinieri, intervenne infine Don Circostanza, che accompagnò tutti nel palazzo per parlare con l’impiegato del ministero, poichè il ministo era partito. Seppero che la questione del Fucino era stata risolta, “come” non si sapeva. I Fontamaresi, usciti dall’ufficio governativo, vennero ancora presi in giro dai cittadini di Avezzano, ma non ebbero più la forza di reagire e lasciarono perdere. Arrivarono a Fontamara a notte fonda e poco dopo erano di nuovo in piedi per andare a lavorare i campi. Intanto nel paese arrivarono dei camion con i militi fascisti che fecero rientrare tutte le donne, bambini e anziani in casa, portarono via tutte le armi e si scatenarono su una donna, lasciandola in terra rantolante. Poco dopo uscirono di nuovo in piazza, mentre tornarono dal lavoro gli uomini che vennero interrogati sul Governo. Nessuno diede risposte soddisfacenti , ma la fila dei camion andò via. L’indomani mattina la madre di Berardo cercò suo figlio, che la sera prima non era rincasato. Il narratore di tutta la vicenda afferma quindi di aver incontrato Berardo dietro al campanile del paese e di avergli comunicato che la madre era in pensiero per lui. Discussero quindi sul problema di Berardo di trovare terra. Decisero, inoltre, di andare a parlare con Don Circostanza, da cui erano a credito per un reimpianto di viti, per chiedergli consiglio e aiuto per trovare un’occupazione in città per il povero Berardo. L’avvocato gli promise aiuto, dopo averli ingannati con la discussione sulle nuove leggi in vigore, allo scopo di non ridare il denaro ai cafoni. Berardo, quando uscì dalla casa di Don Circostanza, tornò a sorridere per la prima volta dopo tanto tempo, credendo alle parole dell’avvocato, che era riuscito ad illuderlo. Intanto nel paese si stava facendo una colletta per poter far arrivare Don Abbacchio a Fontamara e finalmente poter celebrare la messa. Vi partecipò anche Berardo, attirato dalla notizia che, durante la messa, ci sarebbe stata la solita predica, che ormai tutti sapevano ma che riusciva sempre ad attirare tutti i cafoni a messa. Don Abbacchio però ebbe la malaugurata idea di rimproverare i cafoni per il mancato pagamento delle tasse e questo fece scatenare fra i cafoni una discussione generale, dopo di chè Don Abbacchio dovette partire. Pochi giorni dopo i cantonieri finirono di scavare il nuovo letto per il ruscello e giunse l’ora della spartizione dell’acqua fra i cafoni di Fontamara e l’impresario. Arrivarono sul posto tutte le autorità seguite dai carabinieri e e arrivarono anche i cafoni, che dovevano nominare un capo fra gli anziani, che guardasse l’operazione e riferisse agli altri. Purtroppo i Fontamaresi videro che il livello dell’acqua, che avrebbero potuto utilizzare, scendeva sempre di più e capirono che sotto vi era l’inganno. Don Circostanza, per non far scatenare i cafoni, intervenne e avanzò una proposta: l’acqua sarebbe tornata ai Fontamaresi dopo dieci lustri, ma nessuno dei cafoni poteva sapere quanti mesi o anni fossero. Alla spartizione dell’acqua era mancato Berardo e questo i Fontamaresi lo considerarono un tradimento, senza sapere che ormai l’uomo pensava solo più ad emigrare e far fortuna in America. Il figlio del narratore e Berardodecisero così di partire l’indomani. Partirono la mattina presto e Berardo era di cattivo umore. Raggiunsero Fossa per prendere il treno per Roma, ma furono raggiunti dalla notizia che uno dei cafoni di Fontamara era stato impiccato al campanile. I due partirono lo stesso con l’autorizzazione di Don Abbacchio e a Roma soggiornarono in una locanda indicata sempre dal curato. L’indomani si presentarono all’ufficio, che doveva mandarli a lavorare in bonifica, ma seppero che ci voleva una tessera speciale per poter lavorare. Pagarono dunque questa nuova “tassa” e furono iscritti presso l’ufficio di collocamento, ma questo non bastò, dovevano tornare al loro paese e portare la domanda di lavoro. Stanchi, ormai, di viaggiare avanti e indietro, si consultarono con un avvocato che era ospite presso la locanda, dove loro soggiornavano. L’avvocato chiese tutto il denaro che i due cafoni avevano con loro e inoltre spedì un telegramma a Fontamara per chiedere di mandare a Roma tutto ciò che il padre di Berardo, ormai morto da anni, potesse mandare, così gli avrebbe trovato lavoro. L’uomo, quando seppe che il padre di Berardo era morto da anni e che quindi non poteva mandargli niente, si infuriò e andò dai due cafoni. I poveri uomini, ormai senza soldi, avevano fame e stavano tutto il giorno nella loro camera della locanda a fissare il soffitto, sperando di essere chiamati a lavorare. Pochi giorni dopo, arrivò una lettera per Berardo che portava la notizia che a Fontamara gli era morto qualcuno. Furono inoltre mandati via dalla locanda e l’avvocato non li aiutò nella ricerca del lavoro, poiché da Fontamara non era arrivato niente di quanto richiesto dal telegramma da lui spedito al padre di Berardo. I due erano deboli per la fame e di tanto in tanto credevano di cadere per terra, quindi uscirono dalla locanda senza discutere. A pochi passi da lì incontrarono un giovanotto, che avevano conosciuto ad Avezzano e che offrì loro da mangiare. Intanto a Roma vi era la caccia al Solito Sconosciuto, un uomo che “metteva in pericolo l’ordine pubblico” con la fabbricazione e la diffusione della stampa clandestina, con cui denunciava gli scandali e incitava gli operai a scioperare e i cittadini a disubbidire. Dietro a lui corsero molti poliziotti, ma l’uomo era rimasto imprendibile. I militi entrarono nell’osteria dove vi erano i cafoni e controllarono i loro documenti, stavano per uscire, quando videro un pacco abbandonato in terra. I carabinieri presero allora Berardo e il figlio del narratore e li portarono in prigione. I due cafoni pensarono di essere stati scambiati per ladri e così cercarono di parlare con il commissario. Dopo alcuni giorni di attesa si costituì dicendo che il Solito Sconosciuto era lui e che il pacco trovato era suo e che conteneva stampa clandestina. A tutti sembrava strano che un cafone potesse essere i Solito Sconosciuto e così venne più volte interrogato, come avvenne per il figlio del narratore e per l’amico di Avezzano. Quest’ultimo fu liberato, mentre per i due cafoni le pene furono molto crude. Quando Berardo seppe che l’Avezzanese era uscito, decise di parlare e dire cosa gli aveva confessato il giovane, ma quando seppe dal commissario, tramite i giornali, che Elvira, la sua fidanzata, era morta, decise di non parlare più. Nella notte Berardo fu ucciso nella sua cella, ma i poliziotti dissero all’amico che si era ucciso, impiccandosi. I carabinieri dopo avergli fatto firmare numerosi fogli, lasciarono libero il figlio del narratore che tornò a Fontamara. Intanto i cafoni avevano gièà appreso le ultime notizie dal Solito Sconosciuto, l’unica che continuava a fare domande e a disperarsi fu la mamma di Berardo. I Fontamaresi decisero di scrivere allora un giornale con gli appunti lasciati dallo Solito Sconosciuto e fu intitolato “Che fare?”. Bisognava trovare chi andasse a distribuirlo nel paese e anche al di fuori di Fontamara e questo compito fu dato all’autore ed a altri cafoni, che partirono presto e raggiunsero i vari paesi indicati, ma mentre si apprestavano a ritornare a Fontamara udirono degli spari. Era la guerra a Fontamara, chi aveva potuto era scappato, gli altri erano morti, da come raccontava un fontamarese incontrato per strada. Il narratore, il figlio e i pochi cafoni con loro si salvarono nascondendosi nei campi. Non ebbero più notizie di nessuno, nè del paese, loro vissero all’estero grazie all’aiuto del Solito Sconosciuto, ma non poterono restarci. Dopo tante pene, lutti, ingiustizie, odio, i cafoni superstiti si chiedono sempre “Che fare?”. La storia dei fontamaresi vuol essere la denuncia dolorosa e forte di una miseria e di un sopruso sofferti dai poveri cafoni marsicani e in genere dai meridionali sottoil fascismo .  Di questo movimento è evidenziato l’aspetto violento e beffardo, che sfrutta abbondantemente per estendersi e radicarsi . Dal racconto esce l’immagine di un’umanità primitiva e rozza ma capace di virtù eroiche. Vi è anche l’aspetto religioso della vicenda: nel saper ritrovare la coerenza con se stessi e nell’aprirsi alla realtà degli altri. L’ambiente, la Marsica, è sempre presente, come un quadro amaro, ritratto in linee dure, che è parte integrante della vita dei fontamaresi. Un tema importante di questo romanzo è l’ironia, con cui Silone esprime la contrapposizione tra l’ingenuità dei cafoni e la falsità degli altri, la paura di essere presi in giro da parte dei primi e l’intenzione di ingannare da parte dei secondi. Si sottolinea, anche, l’enormità dei provvedimenti che arrivano dall’alto, che assumono l’aspetto di beffe.

Vino e Pane

Prima edizione nella traduzione tedesca di Adolf Saager ( Europa Verlag, Zurigo 1937 ), riedito per la Buchergilde Gutenberg ( Zurigo 1937 ). Prima edizione italiana dell’emigrazione: Nuove edizioni di Capolago, Lugano 1938. Prima edizione italiana interamente riveduta dallo stesso Autore: Vino e Pane, Milano, Mondadori, << Narratori italiani >>, 1955.

vinoepaneIl protagonista di “Pane e vino” di Ignazio Silone è Pietro Spina, un intellettuale comunista, che, stanco del soggiorno in terra straniera, in cui è stato costretto a emigrare, per motivi politici, ritorna in Italia, spinto dalla nostalgia della patria. Arriva nella Marsica, gravemente malato di tisi e viene riparato in un fienile da un compaesano. Eì curato da un ex compagno di liceo, ma non può fermarsi lì per lo stato di salute e per la vigilanza delle forze dell’ordine, lanciate alla sua ricerca. L’amico trova per lui un travestimento da prete e un nuovo rifugio in un borgo montano, col pretesto di trascorrervi un periodo di convalescenza e di riposo, come don Paolo Spada. Il viaggio incalesse, durante il quale attraversa attraversa il suo paese natale, si interrompe per un pernottamento nella locanda del Girasole, dove ha la ventura di essere chiamato al capezzale di una giovane donna morente. Lo Spina, raggiunge Pietrasecca e qui comincia la sua nuova vita, una vita difficile anche per il disagio procuratogli dalla veste che indossa. L’osteria , dove prende alloggio, è il luogo d’osservazione di Pietro, che studia i paesani, al fine di poter introdurre fra loro la propaganda rivoluzionaria. Egli si accorge presto di urtare contro l’ignoranza, la superstizione e l’egoismo dei cafoni. Un secondo personaggio è infatti la società contadina immatura, che è rassegnata nella propria miseria e nell’ingiustizia, come una legge fatale che grava sempre sull’esistenza dei cafoni e accoglie l’ideale di Pietro, come un “sogno”, bello, ma sempre un sogno. Ci sono poi, i giovani intellettuali, gli studenti, e fra questi Pietro ha meno difficoltà a farsi capire, ma i loro entusiasmi sono superficiali. Due incontri lo confortano: quello con la figlia di un possidente decaduto, che decide di entrare in convento e con un frate umile, che condivide con lui la speranza nella realizzazione del Regno di Dio. Nell’intento di riprendere l’attività clandestina con esito migliore, Pietro scende a Fossa, dove la società era più varia, ma prima vuole ristabilire un contatto con i compagni di partito, si tratta del Partito Comunista Ialiano, a Roma, senza piegarsi a nessun compromesso che il partito gli chiede.Questo suo dissenso gli procura però l’espulsione. Rientra in Abruzzo, senza essere riuscito a trovare a Roma un compaesano, da lui cercato, col quale avrebbe voluto accordarsi per un’azione comune fra i Marsicani, Pietro subisce, però, una nuova delusione perchè la propaganda fascista e la povertà della gente congiurarono insieme per disporre le masse ad accogliere con entusiasmo la dichiarazione di guerra all’Etiopia. Dalla prostrazione fisica e morale in cui cade, lo risollevano una sua amica, presunta miracolata, l’incontro con il suo ex professore di Liceo e con il giovane studente invano cercato a Roma. All’annuncio dell’arresto di lui, don Paolo scende a Rocca dei Marsi e lungo la strada viene a sapere che il giovane &egra?e; morto per i maltrattamenti fascisti. In casa del giovane incontra la sua fidanzata e rivede la giovane miracolata, che lo avvisa, che la polizia ha scoperto la sua era identità e lo esorta a fuggire al più presto. Il finto prete si precipita allora subito a Pietrasecca, per distruggere le carte che potevano indiziarlo e si congeda dalla figlia del possidente decaduto, consegnandole un quaderno dipensieri dedicati a lei. La lettura sconvolge la ragazza e la induce a seguire, senza indugio, Pietro in fuga lungo i sentieri della montagna, coperti di neve. Il libro si chiude sulla tragica fine della ragazza, aggredita da un branco di lupi in mezzo alla furia della tormenta. Un elemento importante nel romanzo è l’autobiografismo. Pietro Spina è simile a Silone, il quale di fatto non lascia l’esilio in terra straniera se non alla caduta del fascismo, ma immagina di ritornare nella Marsica per sollevare i cafoni e rovesciare la dittatura. Per lo scrittore è molto importante la religione nella dimensione terrestre e il segno cristiano è incancellabile. La figura del socialista, inoltre, nei suoi contenuti religiosi e messianici non si differenzia molto da quella del sacerdote.

Un premio internazionale

Nel 1980 , la Regione Abruzzo concretizza l’impegno assunto, all’indomani della morte dello scrittore abruzzese nel 1978, di tramandarne il testamento spirituale e la lezione di vita con una iniziativa costante. Con la legge regionale n.39 istituisce il “Premio Internazionale Ignazio Silone” che prevede l’assegnazione di l0 milioni “ad un saggio di storia, politica, letteratura, teatro, che abbia come ispirazione e contenuto gli elementi del messaggio siloniano, che esalti il valore della libertà e della verità ovvero che rappresenti la difesa dei popoli o coscienze oppresse. Il lavoro scritto in qualsiasi lingua nazionale, deve risultare pubblicato negli ultimi due anni”. Viene istituita, inoltre, una borsa di studio di 2 milioni da assegnare ad uno studente di qualsiasi università italiana o straniera, per una tesi di laurea su Silone o uno studio monografico sullo scrittore. Per la realizzazione del Premio sarà costituito annualmente, dalla Giunta Regionale, un Comitato presieduto dal Presidente della Regione, e composto dal Componente la Giunta del Settore della Promozione Culturale, da due Consiglieri regionali, dal Sindaco di Pescina e da uomini di cultura ed esperti in materia di pubbliche relazioni scelti annualmente dalla Giunta regionale.

Nonostante la Legge, il Premio Silone vedrà la sua 1° edizione solamente nel 1988. A questa seguiranno la 2° nell’89, la 3° nel 90 e la 4° nel 91. Da allora si dovrà aspettare la nuova legge regionale, la n.94/95, per rilanciare “Il Silone”, l’unico, tra i premi abruzzesi, che vede la partecipazione diretta della Regione Abruzzo. Alla sezione saggistica e a quella per la tesi di laurea, la nuova stesura annovera anche il premio per la traduzione di un’opera siloniana. Il Comitato organizzatore cambia la sua struttura, assume carattere permanente, si apre alla società civile e si arricchisce del contributo scientifico delle Università abruzzesi. E’ composto dal Presidente del Consiglio e dal Presidente della Regione, dai Rettori di Teramo, L’Aquila e Chieti, dal Sindaco del Comune di Pescina, dal Presidente del Centro Studi “Ignazio Silone”, da due esperti designati dalla Giunta regionale. E’ il Comitato che elegge, al proprio interno, il suo Presidente. La gestione operativa delle iniziative è affidata al Comune di Pescina. Il premio avrà cadenza annuale. Il Comitato nella prima riunione, tenutasi a Pescina il 27 dicembre dello scorso anno, nomina il Presidente del Consiglio regionale, Gianni Melilla, Presidente del Comitato Organizzatore del Premio Internazionale “Ignazio Silone. Il Premio Internazionale Letterario “Ignazio Silone” è stato istituito per la prima volta per garantire la continuità, nel ricordo, dell’opera dello scrittore abruzzese. È articolato in due sezioni: premio saggistica indivisibile e borsa di studio indivisibile. Per VI edizione del Premio 1997 il vincitore della sezione saggistica è stato Arturo Colombo col volume “Un progetto in democrazia”, in memoria di Riccardo Bauer. Il centro Studi Ignazio Silone è stato istituito, parimenti all’omonimo Premio, al fine di raccogliere e ordinare il materiale documentario inerente la vita e l’opera dello scrittore. Il premio Silone si svolge a PESCINA (Aq), situata nella vallata che si estende dagli Appennini sino al lago Fucino e bagnata dal fiume Giovenco dalle cui antiche “piscine” ha tratto il suo nome.È patria del Cardinale Giulio Mazzarino, consigliere della corte del re francese Luigi XVI e del celebre scrittore Ignazio Silone. Quest’ultimo è sepolto qui, davanti alla distesa del Fucino, poco lontano dalla casa dello stesso Mazzarino.

Credits:

www.italialibri.net www.baruffiinfosys.it www.umanitaria.it Dizionario critico della letteratura italiana L’avventura di un povero cristiano: Arnoldo Mondadori Editore, collezione Narratori Italani Il segreto di Luca: Arnoldo Mondadori Editore, collezione Narratori Italiani Fontamara: Arnoldo Mondadori Editore Leggere Europa: Carmelo Sambugar, Doretta Ermini Itinerari di ricerca 2: Cosimo Strazzeri, Loescher Editore Il lavoro dell’uomo: Giorgio De Vecchi, Giorgio Giovannetti, Emilio Zanette Silone: di Ferdinando Virdia  

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Classe 1956, innamorato di questa terra dura ma leale delle sue innevate montagne del suo verde mare sabbioso dei suoi sapori forti ma autentici, autore, nel 2014, del sito web Abruzzo Vivo

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